Anni fa Laurie Anderson voleva fare un disco basato su Gravity’s Rainbow di Thomas Pynchon. Riuscì addirittura a rintracciare lo scrittore recluso e scrivergli una lettera per chiederglielo. Pynchon fu tanto gentile da risponderle che sì, poteva farlo, ma solo se avesse usato soltanto il banjo. Laurie Anderson lo prese come un modo simpatico per dirle “non pensarci neanche.” Di quel progetto resta solo “Gravity’s Angel,” contenuta sullo splendido Mister Heartbreak. Comunque di musica creata sulla base di un’opera letteraria ce n’è tanta in giro: Sister dei Sonic Youth gira attorno alla figura di Philip K. Dick, sempre i Sonic Youth su “The Sprawl” citano quasi verbatim Denis Johnson, e di recente lo scrittore Fernando A. Flores ha dedicato un’intera raccolta di racconti alla scena punk e noise texana, e c’è anche una raccolta di racconti espressamente ispirati dalla musica dei Sonic Youth.

A quell’elenco va ora aggiunto questo sublime No era sólida di Lucrecia Dalt, pensato e realizzato attorno alla novella Venus Smile di J. G. Ballard, a La Frontera di Gloria Anzaldúa e soprattutto a Um sopro de vida di Clarice Lispector citata anche nella lunga e ipnotica traccia finale. Quella di Lucrecia Dalt è una musica fatta da un’artista, e da un’artista che ha una visione e una coesione estremamente solide, che dà alla sua musica un fortissimo sostegno culturale. Abbandonata la professione di ingegnere civile a Medellin in Colombia, le prime escursioni musicali di Lucrecia Dalt furono insieme al combo di musicisti che gravitava attorno al Series Media Collective. I primi dischi, Acerca, pubblicato nel 2005 col solo nome Lucrecia per l’etichetta messicana Mil Records, e Congost, pubblicato sotto il moniker The Sound of Lucrecia nel 2009 da Prune Recordings, erano ancora esercizi sulle forme dell’ambient-pop, un po’ in zona Carla Dal Forno, per intenderci, un incontro tra le angolarità ossute del pop indipendente e le forme morbide e eteree dell’ambient .

Col suo terzo disco passa dalla natia Colombia alla Berlino città-madre di una delle migliori scene musicali occidentali e a partire dai dischi pubblicati da Human Ear Lucrecia Dalt inizia a dare sfogo a tutta la sua vena avanguardista con la perizia di un ingegnere. Su Commotus la forma canzone inizia a disfarsi, a rarefarsi sotto una foresta di synth, droni e campionamenti. Su quel disco, tra l’altro, la prima preziosa collaborazione con l’eccelsa Julia Holter, che suona l’harmonium su “Silencio.” Di lì a poco un’altra collaborazione con il demiurgo Nicolas Jaar nel progetto di musica “telepatica” Terepa, nel quale Lucrecia Dalt, Laurel Halo, Julia Holter, Rashad Becker e NHK’Koyen dovevano registrare simultaneamente della musica per 20 minuti senza comunicare tra loro. Poi Jaar avrebbe sovrapposto i cinque canali per ottenere una specie di musica aleatoria totale.

Ormai Lucrecia Dalt ha raggiunto la sua maturità. Sygyzy (Human Ear, 2013) è un disco sintetico quanto incisivo sul concetto di rarefazione, Ou (Care of Edition, 2015)  il suo disco a oggi più sperimentale (se si esclude la sessione di field recordings), è un vero e proprio studio sul tempo e forse quello dove si nota maggiormente la formazione tecnica di Lucrecia Dalt: frequenze, onde, scale Shepard e effetti THX, un giusto preludio per il successivo Anticlines, primo disco rilasciato per RNVG,  che a sua volta è un preludio per questo gioiello oscuro e sublime. Lucrecia Dalt ha progressivamente lasciato evaporare la concretezza delle strutture della forma canzone, e è evaporata con loro. In un dialogo con Julia Holter ha osservato come per lei sia necessario rivolgersi a qualcosa di esterno e esteriore per fare musica, e che quando crea musica partendo da qualcosa di interiore e intimo, finisce per mettere in moto una serie di processi quasi matematici che non la fanno uscire da certe forme prestabilite. E in effetti ascoltando i suoi primi pezzi si ha la sensazione che i loop quasi krautrock coi quali lavora tendano a soffocare una visionarietà che doveva uscire libera e allo scoperto.

Su No era sólida Lucrecia Dalt scompare, si dissolve in un’entità alternativa, Lia, e racconta il modo in cui Lia passa dalla caoticità concreta alla forma fissa e muta di un qualcosa con dei confini. Viene in mente PROTO di Holly Herndon, ma mentre lì si aveva a che fare con l’estrema concretezza di un’Intelligenza Artificiale, qui si ha a che fare con l’altrettanto estrema imprevedibilità di un’entità non ancora definita. È anche l’idea dietro “Interface” di Gloria Anzaldùa, una poesia su un rapporto sessuale tra l’io narrante e un’entità extraterrestre femminile. Si tratta di ricerca e formazione di un’identità, di mutazioni, di trasformazioni, di tensione verso una forma finita e ordinata.

Così nell’ultima traccia, l’unica che contiene delle parole di senso compiuto dopo la glossolalia delle parti precedenti, Lucrecia cita Clarice Lispector e ci chiede: “¿Puede la parálisis transformar a una persona en cosa?”—Può la paralisi trasformare una persona in cosa?  Clarice Lispector nel libro si risponde: “No, non può. Perché quella cosa pensa.” Lucrecia Dalt ha costruito la risposta nelle nove tracce precedenti, e lascia che nell’ultima sia la stessa Lia a parlare e a porre una domanda che resta aperta. Incontriamo quell’entità libera e dissolta nel maelstrom di glossolalia e clangori quasi industrial di “Disuelta,” la vediamo, anzi la sentiamo, seccarsi e esplodere—“Seca” e “Coatlicue S.,” che è il nome della dea che simboleggia il Sole nella mitologia azteca, ma anche il nome della stella ipotetica da cui sarebbe nato il nostro Sole, e è anche il momento della presa di coscienza di sé in Borderland di Gloria Anzaldúa—la percepiamo evolversi fino a assumere compattezza e confini (“Endiendo”), e la sentiamo parlare nella spoken-word finale—una specie di versione di “Blume” degli Einstuerzende Neubatem rifatta però con la grazia e l’intensità di una Laurie Anderson—fino a lasciare che tutto muoia nel silenzio in agguato in mezzo alla sinfonia finale di basse frequenze. Bassi che ti implodono nelle vene come una supernova.