“Less is More” spesso è solo un falso luogo comune, una scusa per chi non riesce a controllare cose che superano la soglia della banalità di un minimalismo di posa. Quando però dal meno si arriva all’essenziale, ecco che a risaltare non sono i limiti di chi crea, ma le sue doti nude e crude. Total Revenge, nuovo inizio per il losangelino Ryan Pollie, anzi, sua terza re-incarnazione, dopo essere stato Los Angeles Police Department prima e Ryan Pollie poi. Qui pare voler partire alla carica e richiedere una rivalsa totale: Total Revenge, da poco uscito per l’etichetta di Minneapolis Forged Artifacts solo su cassetta limitata a 100 copie oltre che in digitale, è un urlo liberatorio, una reazione alle buone maniere del vivere civile, un rifiuto anche delle forme semplici e educate dell’indie-folk e del pop-rock da cui Ryan Pollie comunque proviene.

Qui troviamo Pollie da solo, con la sua chitarra, un amplificatore, pochi effetti, giusto un distorsore e qualche reverbero, percussioni rudimentali e poco più che improvvisate su oggetti a portata di mano e un garage, cose, ma se il garage non c’è è bello immaginarselo, perché fra tutto il garage-rock dei tempi andati diventato più una posa che una necessità resa virtù, fra tutto il bedroom-pop del nuovo millennio che dal garage di casa si è trasferito nella camerata con un MacBook e Logic, è bello immaginarsi un garage polveroso, con la gibigiana che si riflette su vetri sporchi.

La prima sensazione che ti viene è quella di essere ricapultati nel 1989, i tempi d’oro dei Pavement lo-fi, quelli di Slay Track, di Demolition Plot e di Perfect Sound Forever. Tanta distorsione, tanto rumore che ti solletica le orecchie, e lì sotto una vena melodica invidiabile. Basti sentire “Chalk” o “Smog,” con quei ritornelli che ti si piantano in testa e non escono più, o ancora l’attacco svogliato di “The Lawn” che appena carbura si apre a un fraseggio che potrebbe stare in una demo di Wavves, o la filastrocca di “Surgery,” che a un certo punto sembra quasi una versione sporca e lo-fi di una melodia di Jackson Browne.

Quasi come intermezzi, a impreziosire tutto ci sono alcuni pezzi vocali, “Cherry Red,” “Willow Tree” e “Upper Saddle Creek,” divertissement che sembrano essere tributi agli impasti vocali dei Beach Boys e che dividono il disco quasi in tre parti di due canzoni ciascuna, cui poi si aggiunge la conclusiva “Jeep Cherokee,” una ballata à la Neil Young, con tanto di voce vagamente nasale. Tutto in 21 minuti, che diventano 42, che diventano 63, che diventano 84 e che dopo un po’ vorrai restare per sempre dentro questa piccola oasi lontana dalle finzioni indie-rock rileccate e ripulite quel poco che serve perché sembrino disperatamente sporche. Qui tutto quello che senti è quello che è, e è tutto bellissimo.