
Davvero, chi ha bisogno degli intelligentoni che inseguono l’originalità a tutti i costi per finire ai confini tra ridicolo e patetico? Non devi inventare l’ombrello, e tantomeno devi farne uno traforato. Il rock soprattutto non ha bisogno di reinventarsi per il futuro perché come pare abbia detto una volta Patti Smith, è morto e non lo sa: vive nel passato e di passato, e è tanto più riuscito quanto più riesce a riscoprire, rifare, rielaborare e riscrivere cose vecchie e renderle fresche. Non c’è bisogno di intelligentoni, ma c’è bisogno degli Smarts… sì, lo so che è un gioco di parole che in italiano non rende, e è pure stupido. Anyway…
Gli Smarts vengono da down-unger, dall’Australia, come capita spesso con le band del caro vecchio sano rock oscillatesta. Sono partiti come un duo, ossia il chitarrista Bill Gardner (ex Ausmuteants) e il bassista Mitch Campleman, entrambi già nei Living Eyes. Come duo hanno fatto una demo che possiamo immaginarci tanto acerba quanto diretta e viscerale, ma poco importa. Diventano subito un quartetto con gli innesti del batterista Jake Robertson (Heroplant, School Damage) e del synth di Sally Buckley. Diventano finalmente quel che sono con l’aggiunta di Stella Rennex, chitarrista nei Parnsip, sassofonista negli Smarts. Insieme ti fulminano con 13 brevi pezzi racchiusi in 22 minuti di puro rock oscillatesta, frenetico, fresco e divertente.
La prima cosa che viene in mente sono i Devo e la loro attitudine punk semi-demenziale costruita sugli slogan della società di massa, e tra l’altro anche gli Smarts, come i Devo, citano e stravolgono i Rolling Stones (sempre “Satisfaction,” su “Don’t Slap the Hand That Feed You”). Ma non si fermano qui. Gli Smarts sono abbastanza intelligenti (sorry) da confondere le tracce e mescolare bene le loro carte. Gli innesti di synth e sax arrotondano molto un sound che altrimenti sarebbe forse troppo spigoloso, eppure lo fanno in punta di piedi: quasi non ti accorgi della presenza di quei due strumenti, eppure ci sono, al punto che se non ci fossero ti accorgeresti della loro mancanza. Aggiungono un tocco ska ma senza che si cada mai appieno nello ska, e a volte sembra di sentire una band punk del Midwest stravolta e centrifugata. Che so, i Dow Joes & The Industrial o I Gizmos o gli Slapsticks ma rifatti dai Parquet Courts di Monastic Living, come su “Real Estate Agent” per esempio o “Cling Warp”. Altre volte le rotondità di sax e synth li portano in Texas, in zona “Bar-B Q-Pope” o “Something” dei Butthole Surfers, ma senza i loro eccessi (vedi “Smart Phone”), e altre si avvicinano a un Captain Beefheart con gli strumenti accordati (“Cause for Alarm”).
No. Non serve essere intelligenti per fare del sano rock’n’roll, o forse sì… whatever, metti su questo disco e dimenticati di tutto per 22 minuti.
