
È un vero peccato che in tanti si ostinino a sottovalutare Emily Cross. Non solo perché come Cross Record ha fatto uno dei dischi più belli dell’anno scorso, non solo perché prima di quello ha fatto un disco come Wabi-sabi, quando ancora era una metà di un duo, i Cross, insieme all’attuale ex-marito Dan Duszynski, ma anche per il progetto parallelo Loma, insieme sempre all’ex marito e produttore Dan Duszynski e a Jonathan Meiburg, degli Shearwater. Per fortuna a non sottovalutare i Loma ci ha pensato Brian Eno, che durante un programma radio BBC ebbe modo di esprimere tutto il suo apprezzamento per “Black Willow,” un pezzo del primo omonimo album, pezzo che Brian Eno ascoltava a ripetizione tanto ne era rimasto affascinato e ipnotizzato . Quel disco avrebbe forse dovuto restare un’opera unica di un trio estemporaneo, e chissà, forse ha oggi un successore proprio grazie all’interesse di Brian Eno, che tra l’altro firma la produzione della bellissima closing track “Homing.”
E di cose da apprezzare e da non sottovalutare è pieno anche questo loro secondo capitolo Don’t Shy Away. “Thorn,” “Blue Rainbow” e “Elliptical Days” hanno i languori quasi sincopati del miglior pop di Bristol degli anni ’90, e mettono in evidenza i colori cangianti e chiaroscurali della voce di Emily Cross. A volte sembra di sentire i Portishead rifatti dai Bowery Electric o dai Talk Talk di Laughing Stock. Una strada recentemente presa anche dai Norman, band esordiente proprio di Bristol. Altre volte si spingono invece verso dimenticati territori slo-core, senza mai scivolare in dilatazioni inutilmente eccessive, come sulla breve “Jenny” e in parte su “Don’t Shy Away,” ballata malinconica che più di ogni altra traccia del disco segna un punto di contatto con la Emily Cross solista: un pezzo che potrebbe stare in un trittico ideale insieme a “PSYOL My Castle” e “I Release You” da Cross Record.
Meiburg e Duszynski aggiungono tocchi eclettici: ora inseriscono innesti rumoristi, ora mini-sinfonie dominate da bassi pulsanti, ora riff di fiati che sembrano resuscitare i mai dimenticati Morphine (“Ocotillo”). Lavorano sempre sapientemente per impreziosire senza mai coprire il talento cristallino di Emily Cross che gigioneggia su “Given a Sign,” sussurra su “I Fix my Gaze,” salmodia su “Thorn” e convince in tutto il disco, sospeso in un infuso di generi appena sfiorati, dal post-rock di primissima generazione, quello ancora lontano da certi languori e certi manierismi, al pop orchestrale che qui non è mai troppo pop né troppo orchestrale, agli anni novanta di Bristol, ma rimescolati con una buona dose di sfumature art-pop.
