
Andrée Burelli, ossia la musicista di ambient e elettronica già attiva col moniker Bodyverse, ha scritto e composto De Sidera tra il 2019 e i primi mesi del 2020, quando era tornata per un soggiorno in Italia, paese natio dove non viveva da quando era appena adolescente. La cosa curiosa è che in un certo modo del tutto involontario, De Sidera racconta il lockdown che stiamo vivendo, qua come un po’ in tutto il mondo, raccontando un mondo ritrovato ma quasi irriconoscibile. Le nove tracce sono qualcosa di altamente contemplativo, anche nostalgico e triste, come vedere un mondo che non si riconosce più eppur si sa di dover riconoscere, o come percepire come estranea e forse anche vagamente ostile una casa che dovrebbe essere materna e accogliente. Andrée Burelli ha dell’Italia la stessa immagine che si è portata via quando aveva quindici anni e è quell’immagine che racconta su De Sidera, non per niente realizzato col suo vero nome, Andrée Burelli, e non sotto il suo moniker ufficiale. Nove tracce, realizzate al chiuso di una dimora tra le montagne sarde e il mare, con titoli italiani altamente evocativi quanto esplicativi: “Mediterraneo,” “Ultimi raggi,” “In pezzi sopra la tua pelle,” fino a “Natura domina” e “Leggeri come cenere.”
Questo è un disco che si scosta in modo deciso dalle produzioni precedenti, pur restando una naturale evoluzione di quelle produzioni. Se su Whatever You Want On The Dry Way (ROHS! RECORDS, 2017) esplorava territori noise-glitch, su I Could Go Lucid (Rohs! Records, 2018) si spostava in direzioni più ambient e meditative e Beyond (Rohs! Records, 2019) arrivava quasi a essere un tributo a certa kosmische musik in zona Klaus Schultze, De Sidera, primo disco realizzato per l’etichetta di Chicago American Dream Records, somma e condensa quelle esperienze nel lavoro più maturo e probabilmente più intimo e autentico di Andrée Burelli.
Qui la sua vocazione ai più moderni linguaggi dell’elettronica si sposa con la sua formazione classica, tanto nella tradizione squisitamente occidentale quanto in quella balcanica, mediorientale e indostana. “In pezzi sopra la tua pelle” è forse la traccia più occidentale e “italiana,” e qui sembra quasi di dissotterrare da qualche anfratto un’antica melodia degli anni cinquanta, ricoperta appena appena da un velo di ambient, i droni di “Ultimi raggi” sono delicati come nebbia da cui si fanno strada alcuni rintocchi melodici dal sapore mediorientale e la breve “Aquilone perduto” è un intermezzo in cui Burelli riesce quasi a addomesticare i glitch in una melodia tanto dolce quanto fragile. Ma a vincere e convincere sono i bassi di “Cum Sidera,” a mani basse il mio pezzo preferito di tutto il disco insieme alla sua traccia gemella “De Sidera” (tra l’altro, che bel gioco di parole viene con tre termini latini: desidera e considera), bassi che ti si appicciano alle sinapsi insieme alla voce di Burelli.
Altra cosa curiosa è che i due unici pezzi “cantati,” ossia i poco sopra citati “Cum Sidera” e “De Sidera,” sono cantati su esempi di glossolalia, cosa che in temi recentissimi si è vista fare a Lucrecia Dalt e a Morita Vargas, tanto che verrebbe da sospettare che stia prendendo piede la tendenza di studiare in musica il significato del non significante. Se si cerca di comunicare con parole prive di un loro significato si chiede a chi ascolta un salto cognitivo imponente. Per credere a qualcosa occorre che quel qualcosa abbia un significato, e tradizionalmente ciò che non enfatizza il contenuto cade nell’insieme del trascendentalismo. Per Emerson la credenza senza significato è di per sé critica di ciò che è istituzionalizzato. E come un altro trascendentalista, Thoreau, Burelli cerca in questo disco di dare voce alla natura che sovrasta e domina ogni prodotto culturale. La glossolalia così diventa proprio un modo di dare nome a cose che ci siamo dimenticati di nominare, o a una parte di natura che abbiamo nominato ma che si è ribellata alla fissità delle parole diventando altro da ciò che era. Costruire musica con versi privi di un contenuto, allo stesso modo, significa mettere in discussione una qualche forma di autorità. Non a caso una traccia del disco ha per titolo proprio “Natura Domina,” quella signora che rifiutando ogni manipolazione accetta invece di buon grado di essere contemplata. E quale modo migliore di contemplare il trascendente se non con musica che mira a essere parte della natura?

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