Honey Badger viene descritto quasi sempre con un riferimento a qualcosa pescato nell’immaginario fantastico, ora come un’hydra, ora come uno schizofrenico Dr. Jeckyl/Mr. Hyde, ora come Alice nel Paese delle Meraviglie o come Dorothy a spasso nel fantastico mondo di Oz, e sempre per delle buone ragioni: Honey Badger di fatto suona come un viaggio in un mondo fatato, irreale e bizzarro, e si lega al genere che più di ogni altro ha in passato segnato l’immaginario musicale di mondi fantasy o role-playing, cioè il progressive.  E invero qui c’è molto progressive, sebbene frullato e filtrato, spogliato e rivestito fino a perdere qualunque traccia di anacronismo. La title-track e “Lizard” potrebbero essere pezzi di Selling England by the Pound o di The Lamb Lies Down on Broadway se questi dischi fossero stati pensati, suonati e fatti nel 2020. “Bruiser,” descritta come “disco song dog attack,” miscela insieme archi e basso da disco-music con sprazzi di psichedelia che vorrebbe quasi essere progressive. 

Ma non c’è solo questo. Bastano pochi minuti per capire che la musica dei Dorcha rifiuta facili etichette, mescola stili, generi, approcci differenti, e questo è chiaro fin dal loro primo album su Bandcamp, Black Streams, realizzato come ottetto con tanto di sezione archi (nella formazione attuale ufficiale è rimasta solo la violinista Beth Bellis), è chiaro con i divertissments di The Miniature Project Vol. 1,  e è ancor più chiaro se si sente il progetto parallelo di Anna Palmer e Meesha Fones, Pretty Grim, sorta di supergruppo di Birmingham. I Dorcha, fedeli al significato del loro nome, sono un enigma, qualcosa di indefinibile con precisione, e interessanti proprio per questo. E ecco che a intervallare tracce che hanno una loro direzione ci sono intermezzi quasi di classica contemporanea (“M_eets,” “Me_Ets” e “Mee_ts” e “Meet_S”) che confondono quel tanto che basta per impreziosire quel che resta. 

Registrato negli  Invada studi di Geoff Barrow (di Portishead e BEAK>), Honey Badger è un disco che insieme ti chiede di trovargli una sua collocazione e rifiuta ogni collocazione possibile, se a volte dà l’impressione di sfruttare musica già codificata, più spesso si ritrae nel suo mondo e ti costringe a ripensare quelle categorie, e resta quasi indefinibile come l’animale del titolo, il tasso del miele, che Anna Palmer definisce come “presenza inquietante nelle nostre menti che libera il lato strano e socialmente inaccettabile”: il singolo “Monkey Dust” ha qualcosa di grunge, qualcosa di funky e qualcosa di nuovo, la lunga “China Flora” richiama ancora volta alcune filigrane progressive, ma ripulito da ogni anacronismo e da suoni irrimediabilmente invecchiati, fino alla bonus-track “Le Lyon,” forse il pezzo più interessante del disco, in sospensione tra dub, techno e follia. A accompagnare il disco era stata pensata sorta di installazione video, realizzata insieme a diversi artisti visuali (Lone Taxidermist, Eric Tobua e Shiyi Ly), ma per ora dobbiamo accontentarci del videogioco che hanno lanciato sul loro sito web, e se non sei abbastanza abile una mellivora è pronta a invitati a tornare con un po’ di palle in più.