Quello di Mac Blackout, cioè Mark McKenzie, è un nome in realtà abbastanza noto tra le strade di Chicago. Prima di passare a interessi legati alle arti visive (una selezione di suoi lavori è visibile qui), McKenzie si è dileggiato tra post-punk, inflessioni no-wave e altri adorabili rumorismi prima con i Functional Blackouts, poi da solo o con progetti più o meno solisti tipo i Mickey, Mac Blackout Band e Armageddon Experimental Band. La salsa era sempre più o meno la stessa: ripescare nell’immaginario sonoro aperto dalla no-wave che confinava col jazz ma che era ancora totalmente imbevuta di un’attitudine punk di razza. È un po’ un territorio a doppia circolazione: da una parte il punk che finisce per diventare quasi jazz, dall’altra un jazz liquido che si adotta sonorità sempre più brade e selvagge senza disdegnare approdi elettronici. Ma è Chicago che mescola sempre le carte e trasforma le cose.

Questo Love Profess, nuovo album che esce a sette anni dal precedente e che soprattutto viene dopo le esperienze nelle arti visive di Mark McKenzie, rientra appieno nella filosofia del catalogo Trouble In Mind, etichetta sempre attenta alle contaminazioni di ogni genere, modo e maniera: al jazz liquefatto e dilatato alla maniera di Albert Ayler, Mark McKenzie aggiunge tocchi pop e melodici, come il tenue fraseggio di campanelli su “Forever,” tangibile ma nascosto sotto una coltre di droni di synth e rintocchi di sax dissonante, mentre “Call for Love” si regge su un loop di bassi inquietanti che sembrano uscire da un pezzo dei Can, rotto qua e là da chitarre col fuzz e dal solito sassofono tagliente di McKenzie che finiscono per fondersi col resto e creare un crescendo melodico teso e asciutto. “Magic Hour 2020,” che inizia con la voce registrata di un McKenzie ancora bambino, conclude il lato A con un synth che in parte si ricollega al rinato interesse per musica fatta col synth e meditazioni ambient.

“The Virus” apre la seconda parte del disco, tra droni elettronici, un pianoforte bipolare tra note alte e bassi percussivi: è forse la traccia che racconta meglio di ogni altra lo spirito di tutto il disco, registrato durante i primi sei mesi di questo 2020, cioè da quando il virus era una minaccia circoscritta e quasi astratta a quando è diventato una prigione su scala mondiale. Per McKenzie la realizzazione di questo disco è stato un momento di profonda maturazione che lo ha portato a dare una veste musicale ai suoi più recenti interessi nel mondo delle arti visive, cosa che poi è confluita in un disco che è una “riconsiderazione musicale e immagine cronologica del periodo in cui è stato creato.” Se il primo lato del disco è dominato da un senso di serenità che via via svanisce, il secondo lato, a partire da “The Virus” e dal be-bop decostruito di “Revolutionary Tide” (con un sax assassino che ricorda James Chance) assume un tono decisamente più claustrofobico, quasi tribale e ancestrale. Nondimeno la confusione apre una porta che dà sul giardino della speranza di una riconquistata serenità con la melodia ritrovata su “Love Profess” e la dolce e avvolgente “Dear Mom,” closing-track perfetta per un disco pressoché perfetto.