Alla fine di questo stupido e lurido anno, particolarmente stupido e lurido, non posso che fare un bilancio della musica che mi ha fatto compagnia, che mi ha distratto, mi ha conquistato, mi ha consolato, mi ha fatto riflettere, mi ha calmato, e mai come quest’anno ce n’è stato bisogno.
(1) Lucrecia Dalt, No era sólida (RVNG Intl)
Disco pensato e realizzato attorno alla novella Venus Smile di J. G. Ballard, a La Frontera di Gloria Anzaldúa e soprattutto a Um sopro de vida di Clarice Lispector citata anche nella lunga e ipnotica traccia finale. Quella di Lucrecia Dalt è una musica fatta da un’artista, e da un’artista che ha una visione e una coesione estremamente solide e che dà alla sua musica un fortissimo sostegno culturale. No era solida è un il disco di una donna che prima di essere musicista è artista, e come artista ha creato un’opera per certi versi interdisciplinare, che è musica che racconta un processo, un cambiamento, la ricerca di identità, dalla glossolalia iniziale, agli interventi quasi industrial, fino all’ipnotica, bellissima spoken-song che dà il titolo al disco. [Vai alla recensione intera]
(2) MJ Guider, Sour Cherry Bell (kranky)
Mj Guider fa entrambe le cose che si devono fare per avere un gran disco e le fa benissimo: non cerca consensi facili e mescola generi fino a confondere le idee. Un disco in perfetto stile kranky, che del catalogo kranky è al contempo compendio e proseguimento. Tra ambient, drone, goth, dark-wave, elettronica fatta con l’impeto del rock di un tempo, Sour Cherry Bell è un viaggio nell’oscurità più densa e avvolgente. Immagina un post-rock incupito da una centrifuga nel catalogo Project. Sour Cherry Bell è un disco oscuro, ritroso, torbido, quasi impenetrabile per quanto è denso e limaccioso, eppure ti avvolge e ti travolge, fino quasi a ammutolirti e estasiarti.
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(3) FACS, Void Moments (Trouble In Mind)
I FACS ormai girano a pieno regime, e al terzo album hanno raggiunto una prima maturità. Il suono è decisamente più ossuto e angolare rispetto al pur notevole disco d’esordio Skylarking, e molto più coeso e direzionato rispetto al sempre ottimo Lifelike dell’anno scorso. Qui il post-punk dei Disappears (ex band di Brian Case) e di We Ragazzi (ex band di Alyana Kamala) si ibrida alla perfezione con strutture più intimamente post-rock. Noah Leger e Alianna Kalaba compongono una sezione ritmica minimale che ricorda i sussulti hardcore dei primissimi Tortoise e fa da tappeto per i contrappunti chitarristici parchi e precisi di Brian Case, tutto dilatato in composizioni claustrofobiche eppur accoglienti. “Boy” è l’unica concessione al post-punk e fa da introduzione a tracce che si dipanano in un misto tra krautrock, noise e inflessioni raga. Bellissima la suite che occupa il secondo lato, “Void Walker/Lifelike/Dub Over,” e efficace il singolo “Teenage Hive,” che con quel mantra quasi ossessivo (“No Definition”) si impone quasi come un manifesto per i FACS: indefinibili se non come un post-rock per goth.
(4) Ana Roxanne, Because of a Flower (kranky)
Nelle sette composizioni di Because of a Flower Ana Roxanne continua il suo lavoro di labor limae. A partire proprio dalle voci, anzi dalla sua voce che si sdoppia e poi si moltiplica filtrata e che introduce i principi dello Yin e dello Yan e cita W. A. Mathieu. Come il precedente lavoro, anche Beacause of a Flower esplora il dualismo, l’incertezza, la molteplicità, e la non necessità di dover scegliere tra due alternative. Non solo perché la musica di Roxanne è pregna di riflessioni sulla sua intersessualità, ma anche e soprattutto perché Ana Roxanne è il frutto culturale di una ghirlanda di dicotomie: americana, ma di origini filippine, cresciuta tra spiritualismo indiano e spiritualità cristiana, cosa che porta qui a unire un cantato quasi devozionale a elementi hindustani, tra pop e musica classica.
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(5) Empress Of, I’m your Empress Of (Terrible Records)
Chi l’ha detto che il pop deve essere monopolio di major e mainstream? Perché non fare un pop elettronico che non guarda necessariamente alle classifiche, che riprende suoni di anni ’80 e ’90 e li rimesta fino a ottenere un sound personale, tanto vintage quanto attuale e rinnovato, tanto retrò quanto teso verso il futuro, e che soprattutto riesce a raccontare una storia tanto personale quanto universale. I’m your Empress Of è un grower, complice un’elegante struttura a mixtape che mima i percorsi di un concept-album pur evitandone le pesantezze, è un disco che se inizi a ascoltare in modo distratto e prima che tu possa accorgertene, finisce per entrarti in testa e quasi obbligarti a ascoltarlo a ripetizione per giorni e giorni e giorni.
(6) Orielles, Disco Volador (Heavenly)
Cosa succede se prendi la sezione ritmica degli A Certain Ratio e la mescoli con le melodie degli Stereolab? Succede che ottieni un disco volante, con pezzi pirotecnici come “7th Dynamic Goo,” pezzi saltellanti come “Bobbi’s Second World,” pezzi languidi e avvolgenti come “Whilst the Flowers Look,” e pop tra lounge e brit come “Rapid I” e “Memories of Miso.” Persino una spolveratina di bossa nova nel finale. Produce la sempre ottima Marta Salogni.
(7) Nicolas Jaar, Cenizas (Other People)
Instancabile Nicolas Jaar quest’anno. Dopo un disco con l’alter ego più dinamico e energico All Against Logic, si è prodigato con due dischi più intimi, meditati e difficili, per certi versi gemelli e complementari. Telas, più un’esperienza di un disco che un disco, è stato il disco della ricostruzione, della ritessitura di cose sfilacciate, questo Cenizas, uscito tre mesi prima, era invece il disco della destrutturazione, delle cose che diventano polvere. Curioso che Telas sia un disco tanto astratto e liquido quanto Cenizas è invece un disco concreto e compatto, tra clangori industrial addomesticati e tensioni free-jazz mai invadenti.
(8) Grimes, Miss Anthropocene (4AD)
Grimes ha saputo comunicare molto bene questo suo disco, al netto di qualche inutile polemica innescata su Twitter a riguardo di intelligenze artificiali e il loro utilizzo nella musica, registrata e suonata dal vivo. Per certi versi su Miss Anthropocene Grimes opera il processo opposto a quello che l’eccelsa Holly Herndon ha messo in opera nel suo PROTO dell’anno scorso: se Herndon è riuscita a fare un disco artificiale che suonasse il più umano possibile, Grimes è riuscita a fare un disco umano che suona il più algoritmo possibile, tanto da dare a volte l’impressione che quella nei solchi di Miss Anthropocene sia un avatar di Grimes. Il suo disco migliore in assoluto.
(9) Katya Yonder, Multiply Intentions (Métron)
Un disco che trasuda eccellenza, dialoga con la miglior tradizione del pop occidentale, quello di Kate Bush per intenderci, e spazia dalla Russia al Giappone alla Francia all’occidente anglofono. Ci sono pezzi come вновь и вновь che sembrano uscire da un tributo ai Cocteau Twins, e pezzi, come “Mood” che ricordano invece la coppia Sylvian-Sakamoto della colonna sonora di Furyo, così come в глубине ночной sembra uscito dalla colonna sonora di qualche film russo pieno di nostalgia. “Spinning Olympia” usa strumenti mediorientali mentre “Invented Journey” e “Patter” usano strumenti, metodi e parole giapponesi. Il testo di “Patter” è adattato su una poesia di Shuntaro Tanigawa e “Interlude” sulla versione francese di una poesia di Celan.
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(10) KMRU, Peel (Editions Mego)
L’anno della pandemia è stato anche l’anno che ha visto una massiccia produzione di dischi di elettronica e soprattutto di ambient. E è accaduto a livello mondiale, tanto che uno dei più interessanti dischi ambient del 2020 l’ha fatto il keniota Joseph Kamaru. Peel, pubblicato dalla lungimirante Editions Mego, è un disco ambient che spinge l’ambient verso i suoi confini più estremi, verso i droni più puri, verso l’oscurità, verso la luce più accecante, verso i suoni più dilatati e piatti. È soprattutto un disco che scava in profondità, lavorando sulle dimensione e sui volumi, che sulla linearità, finendo per costruire dei veri e propri percorsi sonori. Più che un paesaggio sonoro, le sei composizioni di Peel disegnano un intero mondo sonoro. Forse anche un universo.
(11) Sam Prekop, Comma (Thrill Jockey)
Quelle di Comma sono canzoni astratte, ma pur sempre canzoni, con versi, ponti e ritornelli, sono pezzi rarefatti ma che non nascondono i contorni di qualcosa di reale e tangibile. Un po’ come le foto che Sam Prekop pubblica sul suo account Instagram privato (@1sampre — che consiglio di seguire come forma di cura dalla complessità estenuante del mondo esterno): foto nitide, a alta risoluzione, con colori vividi e mai eccessivamente saturi. Non raffigurano mai cose create per essere belle e che finiscono per sembrare solo finte, ma scorci di paesaggi urbani semplici e apparentemente anonimi: graffiti, ponteggi, camion, facciate di edifici, o anche un semplice e rassicurante lampione con un uccello appollaiato sopra, “Above Our Heads,” indifferente alle frenesie umane che vede sotto, forse perché da lì riesce a ascoltare anche lui Comma, e non vuole che finisca mai.
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(12) Dummy, Dummy Ep (Pop Wigs)/EP2 (Born Yesterday Records)
I Dummy rappresentano forse il prototipo del nuovo rock di produzione indipendente, cioè un rock che da un lato riprende forme e modelli che ormai appartengono a generi ormai ufficialmente derubricati come “musica elettronica,” riscoprendo e rielaborando vecchia musica e dall’altro lato rifiuta orgogliosamente ogni intervento di produzione invasiva: “Non volevamo suonare come molta musica rock contemporanea, che troviamo essere troppo ‘buona,’ con tutti i suoni super puliti e levigati, senza carattere,” dice il chitarrista Joe Trainor. E a sentire i due ep ci sono riusciti in pieno. Entrambi registrati in casa, soprattutto il secondo Ep, quasi interamente realizzato su un iPhone e un laptop vecchio di dieci anni… e Joo Joo Ashworth, chitarrista dei Froth e fratellino di Sasami Ashworth, che ha mixato il tutto e ha contribuito a dare un tocco ancora più analogico e west-coastiano.
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(13) Andrée Burelli, De Sidera (American Dream Records)
Andrée Burelli, ossia la musicista di ambient e elettronica già attiva col moniker Bodyverse, ha scritto e composto De Sideratra il 2019 e i primi mesi del 2020, quando era tornata per un soggiorno in Italia, paese natio dove non viveva da quando era appena adolescente. Le nove tracce sono qualcosa di altamente contemplativo, anche nostalgico e triste, come vedere un mondo che non si riconosce più eppur si sa di dover riconoscere, o come percepire come estranea e forse anche vagamente ostile una casa che dovrebbe essere materna e accogliente. Andrée Burelli ha dell’Italia la stessa immagine che si è portata via quando aveva quindici anni e è quell’immagine che racconta su De Sidera, non per niente realizzato col suo vero nome, Andrée Burelli, e non sotto il suo moniker ufficiale. Nove tracce, realizzate al chiuso di una dimora tra le montagne sarde e il mare, con titoli italiani altamente evocativi quanto esplicativi: “Mediterraneo,” “Ultimi raggi,” “In pezzi sopra la tua pelle,” fino a “Natura domina” e “Leggeri come cenere.” [vai alla recensione completa]
(14) Craven Faults, Erratic & Unconformities (The Leaf Label)
Erratic & Unconformities sembra voler descrivere a suoni la desolazione di luoghi una volta industriali della patria dell’industrializzazione europea, ora ridotti a silente archeologia di un mondo quasi estinto. Strumenti musicali usati come attrezzi di lavoro, macchinari, in parte azionati da esseri umani, in parte in quella zona grigia tra meccanizzazione e automazione. L’elemento umano è presente ma appena percettibile, come l’identità di Craven Faults, che se spogliata anche dal suo contesto temporale (il 2020), potrebbe passare tanto per un musicista elettronico degli anni ’70 o degli anni ’80 o degli anni ’90, o del nuovo millennio e essere comunque un esempio di originalità e grande creatività: Erratic & Unconformities è l’anello di congiunzione che lega i primi esperimenti concettuali sulla musica aleatoria di John Cage e le ultime affascinanti applicazioni delle AI all’elettronica a opera di Grimes o dell’eccelsa Holly Herndon. Suoni vintage per un nuovo futurismo elettronico.
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(15) Yuko Kono, Fragments (not on label)
Yuko Kono viene dalla scuderia Majikick Records, ma rimasta nel cassetto per diversi anni. Alcuni pezzi di questo Fragments erano già pronti a fine anni ’00, gli altri sono stati registrati tra diverse sedute in studio tra il 2013 e il 2015, in Australia, tra Taggerty e Brunswick, con una squadra di strumentisti tutti australiani e tutti eccezionali, tra i quali il chitarrista Alex Garsden, il compositore James Rushford, attivo come musicista di musica d’avanguardia ma qui in veste di tastierista, il batterista Joe Talia, già alla corte di Jim O’Rourke, e la violoncellista Judith Hamann. In questo disco tutto gira alla perfezione: folk, pop, lievi venature progressive, malinconia, leggiadria, voce, suoni, strumenti, armonie, melodie. Non c’è niente che sovrasti le altre cose, nemmeno per un istante, tutto è perfettamente amalgamato, ordinato, elegante, sobrio: Giapponese.
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(16) Shedir, Finite Infinity (Cyclic Law)
Ecco una produzione ambient/drone capace di stare sullo stesso piano di lavori dei migliori esponenti internazionali del genere. Finite Infinity pare proprio iniziare dalla fine del precedent Falling Time, che sembrava voler raccontare la ricerca di qualcosa di fuggevole e effimero. Finite Infinity ha trovato quel che Falling Time cercava all’interno del paradosso espresso dal titolo: dentro una cosa finita, confinata tra limiti, c’è in realtà un infinito. Su questo disco Shedir racconta l’epifania che si ha quando si riescono a vedere le cose per quelle che sono, spoglie da ogni metafora, da ogni sovrastruttura, da ogni prassi comunicativa che le rende immagine di qualcos’altro. Cose che tremolano, che devi immaginare formarsi in aria, che ti balenano dietro il cervello, che scompaiono allo spengersi dell’ultima luce. Tutto viene coperto da una fitta coltre di droni, ma al di sotto dei droni sono perfettamente riconoscibili field recordings (gli oggetti, le cose, il mondo che accade) e linee melodiche scarne e essenziali che riescono comunque a forare quella coltre, come le percussioni e le basse frequenze di “Quickly Blood” che imprimono la forma del loro perimetro su quella coperta, o la dolce melodia che fa capolino tra le nebbie della lunga “Before the Last Light is Blown.”
(17) Kaitlyn Aurelia Smith, The Mosaic of Transformation (Ghostly International)
Dopo aver preso le misure su Tides e Euclid, e dopo aver provato a staccarsi dai “maestri” (Terry Riley, Brian Eno, Jon Hassel) su The Kid e Ears, Kaitlyn Aurelia Smith raggiunge la piena maturità stilistica sul suo primo album pubblicato con Ghostly International. Quelle di The Mosaic of Transformation sono composizioni che nascono da un lato dal tentativo di esplorare le potenzialità espressive di strumenti elettronici e dall’altra dall’esigenza di tradurre in musica le multiformi potenzialità espressive del corpo umano. Definito dall’etichetta “uno studio propriocettivo su timbro e melodia,” The Mosaic of Transfomation è un frattale sonoro fondato su una dinamica tra stasi e movimento, suoni acustici e suoni processati, tra melodie libere e ariose e pattern reiterati. “The Spine is Quiet in the Center” è un sodalizio riuscito tra musica e voce, “Overflowing” e “Deepening the Flow Of” sono pressoché perfette nella loro brevità quasi icastica e una perfetta introduzione per la composizione più lunga e forse rappresentativa di tutto il disco, “Expanding Electricity” dove voce, strumenti elettronici e acustici partono da lontano per fondersi in un frattale multiforme.
(18) Jasmine Guffond, Microphone Permissions (Editions Mego)
Jasmine Guffond non solo riesce a raccontare i nostri tempi con delle composizioni elettroniche, lo fa con composizioni ispirate, complesse, non allineate. Microphone Permission è un disco sulla crescente sorveglianza virtuale cui siamo sottoposti in quanto utenti di diversi servizi tecnologici e raccoglie, in realtà, anche idee che Jasmine Guffond aveva utilizzato per diversi progetti, come quello di musicare una performance dance sui suoni di una futura foresta estinta, o quello di rendere una mappatura sonora del traffico dati della città di Sydney, o ancora trasformare in suono i metadati di Twitter. Il titolo dell’album fa riferimento a un caso di un paio di anni fa, quando la Liga spagnola di calcio usava microfono e geolocalizzazione per spiare gli utenti di una App gratuita per tracciare gli abbonamenti reali e la pirateria. Il risultato è un disco elettronico che racconta la sorveglianza morbida e liquida cui siamo sottoposti, un tema ricorrente anche in certa recente produzione letteraria e saggistica (ad esempio il recente “Lurking” di Joanne McNeil), e lo fa in modo molto più incisivo di tanta narrativa.
(19) Jeff Parker, Suite for Max Brown (International Anthem/Nonesuch)
C’è chi fa dischi folk che più che anacronistici sembrano regressisti, e c’è chi invece non si vergogna di innestare nuove forme e nuove strutture sul classicismo jazz. Questo chi è Jeff Parker, già chitarrista per i Tortoise, Isotope 217 e Chicago Underground Trio, e già autore di una manciata di album solisti, tra cui il precedente pur discreto The New Breed del 2016. Per questo disco Jeff Parker ha dichiarato di essere attratta da “quelle situazioni che mi portano fuori da me stesso, dove le cose che mi escono fuori sono cose che non sapevo neanche di essere capace di fare.” Il risultato è un disco jazz con delle sfumature post-rock, dub, minimaliste, privo di stucchevoli virtuosismi gratuiti, di gesti tecnici imbolsiti, dove i musicisti si fanno quasi invisibili e si mettono al servizio dell’efficacia di pezzi ben scritti e ben eseguiti. In alcuni punti sembra di tornare alle eteree e maestose atmosfere dello splendido TNT dei Tortoise (“Lydian, Etc.,” “Fusion Swirl”), in altri la ricca sezione ritmica (si alternano tre batteristi: Jamire Williams, Makaya McCraven, Jay Bellrose) apre la strada a territori quasi world (“Go Away”). Conlcusione infuocata con la lunga jam “Max Brown” che da sola vale quasi tutto il disco.
(20) Ganser, Just Look at the Sky (Felte)
Se nei due ep autoprodotti You Feel Like Living e You Must Be New Here le atmosfere erano decisamente Joy Division-oriented, già in alcune tracce di Odd Talk (No Trend Records, 2018) si inizia a sentire l’influenza dei Sonic Youth più Kim Gordiani (era Goo/Dirty) con accenti che possono ricordare la migliore e più feroce Lydia Lunch di 13.13 (soprattutto quando a cantare è Nadia Garofalo). Questa direzione è mantenuta su Look At That Sky: i pezzi cantati da Alicia sono più controllati e compatti (“Emergency Equipment and Exit,” “Shadowcasting”), adagiati su un crooning quasi consolatorio senza perdere la giusta dose di violenza e efficacia, ma quando Nadia lascia synth e tastiere e diventa front-woman, quella violenza prende campo e si sprigiona in un Kim Gordonesimo convincente e più che apprezzabile.
(21) Katie Dey, mydata (Run For Covers)
(22) Norman, MIXTAPE Vol. 1: Songs from the Basement, the Old England, etc. (Slippy Nights)
(23) Nick Storring, My Magic Dreams Have Lost Their Spell (Orange Milk)
(24) Protomartyr, Ultimate Success Today (Domino)
(25) Team Picture, The Menace of Mechanical Music (Clue Records)
(26) Kelly Lee Owens, Inner Song (Smalltown Supersound)
(27) Blue Ocean, Fade
(28) Public Practice, Gentle Grip (Wharf Cat)
(29) Gia Margaret, Mia Gargaret (Orindal)
(30) youbet, Compare and Despair (Ba Da Bing)
(31) Tilman Robinson, CULTERICIDE (Editions Mego)
(32) Lithics, Tower of Age (Trouble In Mind)
(33) Deeper, Auto-Pain (Fire Talk)
(34) Jonnine, Blue Hills (Boomkat)
(35) Field Lines Cartographer, The Spectral Isle (Castle in Spaces)
(36) Beatrice Dillon, Workaround (PAN)
(37) Mac Blackout, Love Profess (Trouble In Mind)
(38) Finlay Shakespeare, Solemnities (Editions Mego)
(39) Mo Dotti, Blurring (Smoking Room)
(40) Mary Lattimore, “Silver Ladders” (Ghostly International)
(41) Mija, Desert Trash (Never B Alone)
(42) Sea Oleena, Waving a Basket (not on label)