
Curioso che nel bel mezzo dell’era dello streaming si stia assistendo alla resurrezione delle vecchie forme analogiche. Aveva ragione Steve Albini quando sul retro della copertina di Songs About Fucking aveva fatto stampare la frase-manifesto “The future belongs to the analog loyalists.” Due anni fa le vendite di vinili hanno superato quelle dei cd e l’anno scorso le vendite di cassette sono raddoppiate rispetto all’anno prima. Il lurido e stupido 2020 è stato se non altro l’anno che ha santificato una volta per tutte la rinascita delle cassette. E non è solo una moda hipster o un’operazione nostalgia di chi vuole un po’ infantilmente ricostruirsi un passato accogliente e felice nel suo presente dispettoso. Sempre più cose vengono stampate su cassette, soprattutto da artisti che possono contare su un seguito solido, e ci sono sempre più etichette discografiche che fanno solo cassette o quasi (Oxtail Recordings, Not Not Fun, Moon Glyph): costa meno produrle, si possono produrre in quantità minori e forse più adatte alla capacità di assorbimento di un mercato che, ricordiamolo, non è certo quello del 1989, e si vendono meglio, favorendo la circolazione e la visibilità di musica indipendente altrimenti votata all’oscurità semi-permanente. Siamo solo all’inizio, ma già c’è chi rivendica il valore estetico dei fruscii e sibili delle cassette e la compagnia britannica GPO Retro ha in produzione un boombox che replica in modo più o meno fedele quello che John Cusack tiene sollevato sopra la testa nel finale di Say Anything. E poi, diciamolo, le cassette sono belle, simpatiche, proletarie, “warm and weird,” come le definisce il commesso nel negozio di dischi del rifacimento Hulu du High Fidelity. Qui ho selezionato dieci dischi realizzati su cassetta (e spesso solo su cassetta) usciti nel corso del 2020. Accoglaiteli.

Blue Ocean, Fade
I Blue Ocean sono esponenti della scena shoegaze attiva tra San Francisco e Oakland e anche se suonano come un gruppo completo, sono in realtà un duo, composto da Dave Stringi che canta e suona la chitarra, e Rick Altieri, che invece fa tutto il resto, tra basso, batteria, magheggi elettronici. Fade è il terzo ep e prosegue la loro proposta di uno shoegaze tanto fumoso e pastoso quanto melodico, con quei testi che sembrano cantati da un posto lontano lontano che non riesci neanche a vedere bene. Un po’ come San Francisco sotto la coltre di nebbia che le è congeniale.

Dummy, Dummy (Pop Wigs)
Joe Trainor ha formato i Dummy appena dopo aver lasciato i Wildhoney e essersi rigenerato al sole della California e è suo sogno aprire un’etichetta discografica specializzata in ristampe su cassetta di vecchi dischi dimenticati: poteva mancare la cassetta del primo ep dei Dummy in una lista di musica realizzata su cassetta? No. E no anche perché il primo Ep dei Dummy è una delle cose più belle uscite nel 2020, tra indie-folk sbilenco, impasti kraut e psichedelia che non ha nessuna intenzione di limitarsi a accenni velati.

Dummy, EP2 (Born Yesterday Records)
E non può mancare nemmeno il secondo ep dei Dummy, che nasce dal secondo lato del primo e va coraggiosamente All-In. In un periodo in cui varie band giocano a riscoprire kraut e psichedelia ma hanno paura di eccedere per non perdere consensi, è salvifico sentire un disco che riprende il lato più oltranzista della musica sperimentale, a partire dall’iniziale “Thursday Morning,” citazione/omaggio ai Velvet Underground, fino a veri e propri pezzi ambient rifatti con un approccio rock.

Lifeguard, Dive (not on label)
Figli d’arte, in un certo senso, o almeno per un terzo, visto che il bassista Asher Case è figlio del Brian Case chitarra e voce dei FACS e prima dei Disappear. È sorprendente come dei ragazzi così giovani siano riusciti a fare un disco rock così autentico, e ancor più sorprendente è come siano riusciti a prendere materiale vintage senza sembrare revivalisti. Siamo in zona Slint, ma con una personalità e una freschezza apprezzabili, chitarre distorte e in feedback, un basso acido e lineare che però affondano in sonorità adatte a chi è cresciuto nel nuovo millennio. Bravi davvero.

Max Daniel, Meant to Be (not on label)
Musicista e trombettista di San Francisco, Max Miller Loran, aka Max Daniel, suona già da un bel po’, ma è da relativamente poco che si è reinventato cantautore pop, e già fa ottime promesse, un songwriting fresco, accogliente, tra melodie Beach Boysiane (“Behave”), schitarrate in perfetto stile Costello (“The Man”), preziosismi mccartneyiani negli arrangiamenti (“What’s the Point of Wondering”). Tutto procede in scioltezza e tutto va al posto giusto, come deve essere in un disco che si vuole erede della migliore tradizione cantautoriale pop occidentale.

Mo Dotti, Blurring (Smoking Room)
Al crocevia tra shoegaze e jangle-pop, tra i rumorismi dei My Bloody Valentine e la vena college-rock dei REM del periodo IRS, quello che i losangelini Mo Dotti hanno capito, è che per fare shoegaze/dreampop non serve necessariamente riempire i vuoti con feedback e droni di chitarra, ma serve partire da buone basi melodiche, un songwriting fresco e accattivante, un jangle pulito da sporcare e trasformare in jangle-gaze, etichetta prontamente adottata da Bandcamp. Il risultato è davvero incantevole. Spicca la voce suadente e fatata di Gina Negrini.

Marahadja Sweets, Now a Yak Cd (Oxtail Recordings)
Proposta altamente eclettica quella di Marahadja Sweets: dopo una trilogia fantascientifica, dischi tra noise e elettronica e un disco jangle obliquo (Guitar Joy), ecco che torna a casa Oxtail Recordings per un disco parlato che è anche una guida alla New York dei margini, una specie di complemento musicale, s e vogliamo, per il mock-umentary How To With John Wilson. Qui tutto acquista un senso quasi lugubre, verrebbe da dire: detriti sonori, attacchi quasi funky, caroselli synth, roba che sembra rubata da una radio FM, mentre Marahadja racconta una New York, un occidente, un mondo che la recente pandemia ha svuotato di tutto ciò che era umano e vivo. Da vedere anche la versione video qui.

Norman, Mixtape Vol. 1 (Spinny Nights)
Quintetto di Bristol, la città di Portishead, Massive Attack e del trip-hop, e i germi di quel genere si sentono, sebbene siano ampiamente stemperati in un interessante flusso che ricorda le armonie e le melodie dei Morphine tagliate con le asperità degli Spring Heel Jack. Questo ep, sottotitolato Songs from the basement, The Old England etc contiene solo tre tracce: “Normal Haircut” che è un po’ il manifesto della loro musica fatta a incastri stratificati dove sembra quasi che tre o quattro pezzi siano stati sovrapposti uno sull’altro per dar vita a un coagulo sorprendentemente solido, “Call Me Sentimental” è un intermezzo crooning, a metà tra un blues di Nick Cave e un pezzo degno di una colonna sonora per un film di Tarantino, “New Year’s Eve” chiude tutto e mescola sperimentazione e classicismo in un pezzo multi-livello, dove si sovrappongono elementi jazz, noise e cantautoriali. Quando bastano dieci minuti per convincere.

Thanks for coming, to be honest, i was lying (Beauty Fool Records)
Rachel Brown ha ormai raggiunto la sua piena maturità artistica, e dire che il primo post su Bandcamp per descrizione aveva “I wrote these instead of doing homework.” Dai primi acerbi esperimenti con chitarra e voce, le prime incursioni nel mondo di GaragaBand e dei sample, l’esperienza Water from your Eyes insieme a Nate Amos, a questa maturità lo-fi e DIY il percorso di Rachel Brown è affascinante e diretto. Dopo no problem e questo to be honest, I was lying, tra jangle, slacker pop in stile primi Pavement e folk in odor di Daniel Johnston, non vedo l’ora di sentire cosa farà in futuro.

Total Revenge, Total Revenge (Forged Artifacts)
Total Revenge è la terza incarnazione lo-fi di Ryan Pollie, dopo i Los Angeles Police Department e dopo la musica fatta col suo vero nome. Total Revenge è un nuovo inizio, un urlo liberatorio, un’emancipazione da tutto ciò che viene sofisticato. Qui Pollie è da solo con una chitarra elettrica, un amplificatore, pochi effetti e percussioni rudimentali. Il risultato è un garage rock nella sua forma più primordiale e genuina, inframezzato da intermezzi vocali (“Cherry Red,” “WIllow Tree,” e “Upper Saddle Creek”) che ricordano un po’ gli impasti vocali dei Beach Boys e concluso con una ballata in pieno stile Neil Young nella conclusiva “Jeep Cherokee.