I Nightshift sembrano quasi uscire dal nulla, e invece provengono dalla scena indipendente di Glasgow, e tutti e cinque da band che avevano un loro seguito. Il nucleo iniziale era formato dal chitarrista David Campbell (già nei I’m Being Good) e dal polistrumentista (nei Nightshift bassista) Andrew Doig, attivo con il moniker Robert Sotelo e anche nel divertente terzetto Order of the Toad. A loro si aggiungono il batterista Chris White (Spinning Coin) e Eothern Stearn, l’elemento forse più avanguardista del gruppo e che ha già dato prova di quanto sia capace di spingere i limiti della forma canzone a fondo nelle paludi no-wave nei suoi progetti precedenti —2Ply (duo nel quale suonava la batteria) e Difficult (quartetto dove canta e suona le tastiere). 

Il primo omonimo disco dei Nightshift, uscito l’anno scorso per CUSP (etichetta diretta dallo stesso Doig), sprigiona appieno i diversi approcci dei membri, e resta in equilibrio tra il pop comico-cosmico di Doig e i sussulti no-wave e post-punk di Stearn. I pezzi di Nightshift nascono tutti durante sessioni di improvvisazione in studio, cosa che si sente negli intrecci tra i diversi strumenti e tra le parti vocali, divise tra Eothern Stearn e Andrew Doig, “Rosary” parte con un incedere marziale che ricorda “No Tomorrow’s Parties” dei Velvet Underground, ma rifatta dai Can dei pezzi più ossessivi di Tago Mago. “I Don’t Mind” e “Flat Earther” testimoniano l’attitudine per le melodie impeccabili del gruppo, qui sorrette da un basso pulsante, vivo, e con un suono caldo e accattivante come non sentivi da tempo. “Radio” è un’incursione nel folk psichedelico stralunato e la conclusiva “Describe Your Day” un omaggio ai Sonic Youth più dissonanti ma con l’approccio solare e divertito che dopo solo trentacinque minuti di musica hai già imparato a associare ai Nightshift.

Subito dopo la realizzazione dell’album di debutto, entra nel gruppo Georgia Harris, clarinettista multiforme già attiva nel duo Loris and the Lion, scoppia la pandemia con tutte le sue clausure coatte e i Nightshift ne approfittano per realizzare il loro sophomore album, Zöe, per la sempre affidabile Trouble In Mind: il primo album fatto e suonato in smartworking: ciascuno registrava la sua traccia, la passava agli altri musicisti che la lavoravano e la ripassavano e così via. Un approccio che sembra quasi di vedere nell’opening track, programmaticamente chiamata “Piece Together.” Cinque solitudini sommate in un pezzo che ha un passo quasi ipnotico e dove gli strumenti suonano allo stesso tempo separati e intimamente uniti. Ma è solo l’antipasto: con “Spray Paint the Bridge” si inizia a sentire l’apporto del clarinetto di Georgia Harris, che ti porta proprio in un altro mondo mentre sembra di sentire un duetto tra Nico e Lee Ranaldo. 

“Outta Space” è costruita su un loop di chitarra dissonante e svogliata che fa da tappeto per una voce che salmodia, altrettanto svogliata ma dolce e rassicarante. È la traccia che si lega di più a quello che Eothern Stearn ha fatto con i Difficult, così come “Fences” è la traccia si lega al pop barocco ma non troppo di Andrew Doig come Robert Sotelo, in zona Simple Songs di Jim O’Rourke, per intenderci. Il singolo “Make Kin” si spinge ancor più in là, e adotta un cantato quasi rap su una sezione ritmica sostenuta e carnosa che innesca intermezzi fortemente melodici.   Qui viene quasi voglia di voler sentirne una cover fatta da Neneh Cherry, a patto che il clarinetto di Georgia Harris resti immutato.“Power Cut” è decisamente il centro focale del disco, i suoi sette minuti si aprono a melodie sporcate di psichedelia, rintocchi di synth caldi e soffici, impasti vocali molto west-coast, in un crescendo di ripetizioni che si avvicinano a una forma rigenerata più dolce e  più calda  di krautrock, “Infinity Winner” è una ballata cantata in un falsetto moderato, e anche il pezzo che dimostra che i Nightshift le loro partite le vincono nella cura dei particolari, e qui il basso teso e saldo per tutto il pezzo lascia spazio a piccoli rintocchi dissonanti e a poche parche note di clarinetto che quasi trasformano tutto. 

Per certi versi i Nightshift ricordano un’altra band recentemente entrata nel roster Trouble In Mind: i Dummy. Entrambe le band riescono a mescolare krautrock, attitudine no-wave, una squisita propensione per un’avanguardia calda (più pronunciata nel caso dei Dummy) e una dimestichezza quasi naturale con linee melodiche west-coastiane giocate su un dialogo tra voce maschile e femminile (Nathan O’Dell e Emma Maatman nei Dummy, Eothern Stearn e Andrew Doig nei Nightshift). È veramente difficile trovare musica che sia tanto rock e sperimentale quanto pop e orecchiabile. Qui ogni cosa ha un suo posto e tutto è al posto giusto.  Nessuno strumento esce mai dai suoi confini, e tutti si appoggiano gentilmente agli altri, valorizzandoli e evidenziando i ricchi particolari di ogni traccia: la ninnananna di  “Romantic Mud,” la samba sbilenca nascosta dentro “Zöe” e la conclusiva “Receipts”  che chiude tutto regalando una chanson francese aggraziata e onirica. Ora non resta che aspettare che i Nightshift facciano il terzo disco. Me lo sto immaginano e già mi piace.