
Nel tanto ci sta il poco, e nel tanto di Fresh Bread, 52 tracce divise tra registrazioni casalinghe, interventi live, streaming e collaborazioni spalmate in un arco di 8 anni e quasi quattro ore di ascolto, trovi una mezza dozzina di selezioni del poco che ti serve. Già per il jazz screziato di bossa nova di 4444 Gendel aveva dato alcune istruzioni di ascolto, e ti invitava a ascoltarlo una volta così com’era, e una seconda volta ribaltando l’ordine delle tracce, compreso il silenzio in coda alla traccia finale che nel secondo ascolto diventa un silenzio tra la prima traccia e tutto il resto.
Anche per Fresh Bread ha dato istruzioni per l’uso, augurandosi che chi si trovi a ascoltarlo, “si metta a sedere e lo ascolti sul proprio stereo senza interruzioni, neanche pause per il bagno.” Non so se dicesse sul serio, come non so se sia serio quando definisce questo monumentale disco “un’affermazione decisamente importante sulla nostra società,” ma in effetti il disco suona come una collezione di momenti effimeri, quasi come saltare di sito in sito mentre si ozia per la rete, e le tracce hanno tutte una qualità quasi frammentaria e precaria, adatte alla sempre più diminuita capacità di mantenere ferma l’attenzione su qualcosa. Tracce e disco molto diversi sia dal su citato 4444 che dai precedenti album licenziati da Nonesuch, DRM e Satin Doll, album più coesi e dotati di una loro narrativa più rigida.
Fresh Bread è una vera e propria autobiografia di Sam Gendel, nome che purtroppo a molti dice poco, ma vanta collaborazioni con nomi abbastanza gettonati nel panorama pop, come Perfume Genius e Moses Sumney, oltre che collaborazioni con giovani giganti del mondo ambient/new age come Carlos Niño e vecchie glorie come Pino Palladino. Ma il miglior modo per capire chi sia Sam Gendel, e quanto sia bravo tanto con la chitarra quanto con l’alto-sax, è perdersi nelle 52 tracce di Fresh Bread. Spesso non sembra quasi che sia il disco di un sassofonista, e jazzista per giunta. Ma la grandezza di Gendel la devi cercare proprio nella sua capacità di non farsi dominare dallo strumento che suona, e riuscire anzi a usarlo sempre come un mezzo e mai come fine: San Gendel resiste alla tentazione di lasciarsi andare a virtuosismi, la peggiore forma di narcisismo tossico per un musicista e specie per un jazzista, anzi, forse nemmeno conosce quella tentazione e non ha paura di coprire il suo sax con una miriade di altri suoni, sempre parchi e eleganti. Spazia tra generi, stili, approcci diversi, si lascia andare a jazz più o meno classici, come “Sometimes I Feel so Good,” che può ricordare le cavalcate latin-jazz del miglior Santana, il jazz classicheggiante di “Ugly Beauty” e “Mourning Dove,” le escursioni in territori quasi free di “No. 5,” ma i momenti migliori li trovi quando ci si avvicina a quel jazz che è possibile immaginare solo dopo essere passati per le forche caudine di post-rock e elettronica, come “Iguana King,” “Iguana Queen,” “Skip,” le suadenti “Waraku2” e “Waraku3” (cose che puoi immaginare solo dopo i Tortoise), o quando Sam Gendel si lascia contaminare dalla contemporaneità, come le velature quasi trap di “Cruzin Wit” e “Champes Elysées” o ancora quando si lascia conquistare da lidi ambient e new age, come in “Wwaasshh” e “Sustain,” e quando fa il giro del mondo tra medioriente (“Junk_Theem”), oriente (“Oriental Folk Song” e “干し芋”) e sudamerica trasfigurato tra ripumba (“Roomba”), tango (“Acordeòn”) e samba (“Bird of Paradise”).
Fresh Bread è una scatola di lego con 52 mattoncini che puoi usare come vuoi. Puoi sentirti il disco così com’è, da cima a fondo, e ti assicuro che è un’esperienza che assume via via strane forme e quasi diventa un oggetto, un organismo vivente che ti abbraccia e ti culla. Oppure puoi smontarlo e rimontarlo come vuoi. Puoi decidere di ascoltare le 52 tracce in ordine casuale, e ogni volta ti si costruirebbe attorno un mondo diverso. Puoi scegliere i pezzi che vuoi e montarli come ti pare e crearti i tuoi mondi. Puoi seguire la selezione di Sam Gendel e ritagliarti le 18 tracce che ha selezionato per l’edizione su vinile. Puoi mischiare le 52 tracce come se fossero le 52 carte di un mazzo di carte francesi, e giocarci come meglio preferisci. Ti confesso che io non ho saputo resistere alla tentazione di formare quattro mazzetti divisi per semi e colori, ma credimi: qualunque gioco tu ci faccia, vinceresti sempre.
My picks: “Wakaru3,” “Wakaru2,” “Junk_Theem,” “Sustain”