
Inizio subito con un avvertimento: non ho mai nascosto una mia particolare predilezione per i FACS e questa è una cosa da tenere conto per calibrare quanto sto per scrivere, ossia che i FACS sono il miglior gruppo rock attualmente in circolazione là fuori.
Mentre Londra sud vive di post-punk addomesticato e a misura di mercato (con l’eccezione del vivaio Speedy Wunderground), i FACS vanno da sempre nella direzione opposta alle varie correnti di mercato, fanno dischi tanto ostici quanto godibili, tanto refrattari ai compromessi quanto accessibili da chi è cresciuto con post- e math-rock, slo- e hard-core, new-, no- e shoegaze, insomma, da chi è cresciuto con l’universo musicale aperto dagli Slint, dal catalogo kranky e prima ancora dal catalogo Factory negli anni ’80
E il nome FACS nasce proprio da una storpiatura del codice di inventario che usava proprio l’etichette discografica Factory per catalogare i dischi che pubblicava, ossia FAC. Erano altri tempi, certo, ma quella stessa claustrofobia ostica di quel catalogo sopravvive in molte tracce dei FACS, e sinceramente ho sempre desiderato sentirli suonare una cover di un pezzo dei Joy Division, tipo questa:
Certo, Factory, Joy Division, un’attitudine dark mai sopita, ma la band del passato che forse più di ogni altra può essere considerata l’antesignana dei FACS per me sono i This Heat. I FACS come i This Heat si pongono fieramente al crocevia tra post-punk (nel caso dei This Heat una chimera futura, per i FACS una realtà distorta), industrial e primi embrioni di post-rock. I This Heat furono forse i primi a cercare di fare musica rock che somigliasse più all’elettronica che al rock classico. La loro era musica che andava alla ricerca di sonorità sature di overdub, scarti atonali e aleatori e incursioni impreviste e inusuali in territori free-jazz. In sostanza i This Heat avevano creato la formula che trent’anni dopo i FACS avrebbero adattato ai nostri tempi.
Slint. Gli Slint c’entrano sempre. E con i FACS c’entrano perché il primo gruppo di Brian Case erano i 90 Day Men, ossia il gruppo che stava diffondendo la buona novella del nuovo hardcore di Slint, June of ’44 e Rodan a St. Louis. La matrice post-hardcore nei Disappear e nei FACS passerà forse in secondo piano, ma certe geometrie proprie del math-rock saranno sempre ben riscontrabili, sebbene rielaborate e rinvigorite all’interno di una nuova e più vivida miscela.
I FACS non nascono dal nulla, ma prima di passare dai 90 Day Men ai FACS occorreva uno stadio intermedio. Se i 90 Day Men sono uno stato solido e i FACS uno stato gassoso, quasi etereo, i Disappear sono quel passaggio liquido necessario per preparare quel sound essenziale e scarno. Il primo nucleo dei FACS—Brian Case, Noah Leger e Jonathan van Herik—era già presente nei mai dimenticati Disappears, una delle band che ha spinto il glorioso catalogo kranky verso territori più shoegaze e dark. Difficile dimenticarsi di Irreal, impossibile non riconoscerne l’importanza per molto post-punk genuino.
Il primo disco dei FACS, Negative Houses, riprende e continua la strada di Ireal. In sostanza si chiamano FACS, ma sono tre quarti mescolati dei Disappear, ossia i Disappear meno il bassista David Carruesco. Brian Case si sposta al basso e registra il primo disco del suo nuovo gruppo, Negative Houses negli studi Elettrica Audio di Steve Albini, e mostra quel post-punk del nuovo millennio che nasce dalle ondate dissonanti di fine settanta e primi anni ottanta, ma rifatto con un’attitudine tutta nuova, una che può nascere solo dalle oscurità del catalogo kranky, e perché no, un tocco di Goth e di riflessività. Kudos per “House Breathing,” con quel sax che amplifica l’atmosfera macabra e minacciosa di tutto il disco.
Subito dopo la registrazione di Negative Houses van Herik decide di lasciare il gruppo, ma ormai i FACS sono qui per restare e la defezione è stata solo un’opportunità per ricalibrare e raffinare un sound già vincente in partenza. Case torna alla chitarra per lasciare posto al basso a Alianna Kabala, un’autentica regina che saprà dare una sferzata decisiva al sound del gruppo. Ma Alianna Kalaba non è smhre stata una bassista. Il suo esordio è stato con una band di Chicago, i WE Ragazzi, dove era dall’altra parte della sezione ritmica la batteria.
Ormai siamo abituati a considerare il post-rock una forma di musica orchestrale, fatta di timbri e di silenzi, spesso pretenziosa, quasi sempre manieristica. E invece il post-rock nasce dal post-hardcore dialatato a dismisura, da strumenti rock usati per fare musica il più possibile distante dalle facili equazioni delle traiti chitarra-basso-batteria. In questo senso Lifelike è un disco post-rock, si può leggere come una unica lunga traccia allungata, dove non succede niente di quello che ti aspetti, e tutto quello che si aspetterebbe un dark,. Tracce come “Xuxa,” “In Time” o “Anti-Body” sembrano uscite da una versione più scarnificata di Pornography dei Cure, e tutto il disco è il figlio illegittimo dei post-rock e del goth.
La stessa formula appena provata su Lifelike i FACS la applicano con maggior convinzione e perizia su Void Moments, una specie di concept album sul concetto di creazione di un’identità, una sorta di coming-of-age album. A partire dalla copertina, una foto di una scultura di Emily Rae Counts: una testa che può essere tanto umana quanto aliena, in cerca di definizione. “Boy” è l’unica concessione al post-punk e fa da introduzione a tracce che si dipanano in un misto tra krautrock, noise e inflessioni raga. Bellissima la suite che occupa il secondo lato, “Void Walker/Lifelike/Dub Over,” e efficace il singolo “Teenage Hive,” che con quel mantra quasi ossessivo (“No Definition”) si impone quasi come un manifesto per i FACS: indefinibili.
Ormai i FACS sono una macchina ben oliata che procede in scioltezza, e la cosa che più apprezzo è che, precisi come un orologio, realizzano un album all’anno, quasi sempre in primavera. La primavera del lurido e stupido 2020 si è trovata a dover coincidere con l’esplosione di una pandemia, e Void Moments si è trovato magicamente a essere una colonna sonora adatta della distopia che abbiamo dovuto vivere. Più o meno nello stesso modo, Present Tense uscirà proprio quando quella pandemia inizia a essere una brutta storia del passato, e già dai primi due singoli del disco si nota una maggior apertura alla melodia per un disco che sembra promettere di essere il disco più accessibile dei FACS, quello più arioso e meno scuro, pur sempre sorretto dal basso di Alianna Kabala, qui più imperioso che mai, ma è quello che ci vuole per esorcizzare la più crudele delle stagioni e lasciarci alle spalle la domanda: “Wasn’t the springtime cruel?”
I FACS non finiscono con i FACS. I FACS hanno già degli eredi, in senso letterale perché il bassista dei Lifeguard è Asher Case, figlio di Brian Case. i Lifeguard sono giovanissimi e c’è già chi li ha definiti “the best teen rock-band since Squirrel Bait.” E per delle buone, anzi ottime, ragioni. I Lifeguard hanno tutta l’energia che ti aspetti da dei giovanissimi musicisti, e tutta la curiosità e l’inventiva necessari. Prova a ascoltare il disco d’esordio, Dive, e un beatifico sorriso stupore ti si formerà in viso. Come si dice: like father, like son.