Il pop è morto! Viva il pop! E i Death of Pop non sono mai stati così vivi e Seconds non poteva avere un titolo più appropriato: una seconda vita, un po’ come per l’Arthur Hamilton dell’omonimo film di Frankenheimer da cui i fratelli James hanno ripreso il titolo per il loro album. Dopo una serie di album e singoli autoprodotti e un ep per Art is Hard (Fifth), riassunti in due album antologici per la spagnola Discos de Kirlian (Runts e Turns), i Death of Pop (cioè i fratelli Angus e Oliver James) hanno iniziato a fare sul serio col precedente Fed Up (Discos de Kirlian – 2017) che suonava a tutti gli effetti come un vero punto di inizio: un pop che potremmo definire janglegaze (definizione in realtà delle Mo Dotti), cioè sospeso tra jangle e shoegaze.  

Ma quello era il 2017, un anno ormai già lontano, e in quattro anni di cose ne succedono, e per cose intendo: un ep per Leisure (Heads West), un altro ep live in studio per la francese Hidden Bay (Six), un album di cover (Coats), un singolo natalizio (con tanto di cover di Martin Newell). Strada che li ha portati a realizzare un secondo disco per Hidden Bay e a cambiare se non drasticamente almeno decisamente sound: meno chitarre, suoni meno angolari e più rotondi e avvolgenti in direzione della tradizione synth- e sophisti-pop britannica, dai Prefab Sprout ai Tears for Fears. 

Seconds è in un certo senso un ideale manifesto della recente rinascita del pop occidentale, e mai come in questo periodo ci sono testimonianze dello stato di grazia del genere, e per fare un po’ di name tossing: Penelepe Isles, Team Picture, Jouis, Dorcha, Nightshift, Buffet Lunch nel Regno Unito, Barrie, Sis, Tennis, Hoops e Tops oltreoceano. Solo i Death of Pop però sono riusciti a riprendere il paradigma del cantautorato pop e rinfrescarlo, e ci sono riusciti senza snaturarlo e senza cadere in oziosi manierismi. I fratelli James hanno il dono della melodia, riescono sempre a azzeccare il ritornello giusto, l’arrangiamento giusto, né troppo invasivo né troppo esiguo, e fanno un disco che riesce a volare sul filo tra novità e nostalgia, pezzi frizzanti come la funkeggiante  “Ready for Us” (in realtà già presente nell’ep Heads West) e come la style-council-eggiante “Fade Away” citano e dicono qualcosa di nuovo al tempo stesso, così come “The House that we Built” ha un attacco che sembra uscire da The Seeds of Love dei Tears for Fears ma sa evitare i barocchismi che rovinano un po’ quel disco. Tutto procede in scioltezza, tutto è al posto giusto e non c’è niente di troppo, la tracklist è perfetta, l’opener è perfetto come perfetta è la closing-track, “Disappear,” sorta di shoegaze fatto con synth e tastiere invece che con chitarre e riverberi. Seconds è un disco che ti porta negli anni ’80 ancorandoti fortemente nei ’20 che stiamo vivendo. Sarà davvero difficile trovare un disco pop migliore di questo per quest’anno. E chissà per quanti anni.