
Ecco un disco di cui è necessario parlare e è necessario parlarne bene. Non solo perché è una produzione internazionale e ambiziosa di una piccola e già pregevole etichetta italiana—la fiorentina Quindi Records—non solo perché produzioni di questa caratura sono davvero rare in Italia, da sempre regno di provincialismi piccoli e oziosi, ma più semplicemente perché si tratta di un disco ben realizzato e di rara bellezza.
Dopo aver prodotto un’eccellenza italiana (Breath of Infinity dei trevigiani Cabaret Du Ciel, veri alfieri dell’elettronica nostrana), un’eccellenza internazionale (Arcturian Corridor degli inglesi Woo, che già negli anni ’80 e ’90 mescolavano pop, ambient, folk e psichedelia, cioè già negli anni ’80 e ’90 facevano la musica ibrida e contaminata che si fa oggi), il catalogo di Quindi Records si arricchisce con una produzione intercontinentale: i Dead Bandit, formati dal cantautore di Chicago Ellis Swan e dal polistrumentista canadese James Schimpl.
Fin dall’attacco di “Mud,” ballata polverosa retta su una linea di basso martellante e indolente, si ha la sensazione di essere catapultati nei deserti di un western di Sergio Leone, tema che poi verrà ripreso da “Valentine” e “Ff M,” dove dei temi musicali che potrebbero essere stati scritti da Morricone vengono suonati con le dilatazioni e i bassi calcati dei migliori Tortoise (quelli di “Magnet Pulls Through,” di “Djed” e di “Ry Cooder” per intenderci). Ma su From the Basement c’è molto di più: ci sono tracce del Tom Waits rumorista (tra Bone Machine e Real Gone) rimasticate e rielaborate ancora una volta dalla tradizione post-rock di Chicago (“Handsome Willie,” “Instrumental 1”), c’è l’americana di Neil Young (ispirazione dichiarata dal duo) trasfigurato da tocchi gentili di elettronica (“When I Looked Around”), c’è la quasi ambient di “I Saw Her There” fino al country bucolico della ninna-nanna finale “Crickets.”
Basso pulsante e percussioni quasi industrial sono i protagonisti assoluti del disco, sebbene tutto sia infuso di elettronica, di post-rock, di folk inacidito e una spolverata di minimalismo kraut: From the Basement è il disco che ci voleva per uscire dalle secche di certo post-rock sempre più freddo e auto-indulgente e riscoprire il post-rock delle origini, dilatato, rallentato ma pur sempre vivo e pulsante, un post-rock che negasse le mura portanti del rock (riff abrasivi e velocità) per superarle e rigenerarle con timbri e cadenze. From the Basement è un disco che ridefinisce i confini di generi a loro modo già codificati, è un disco che torna di poco indietro per poter andare avanti.