
Timekeeping è il secondo album che Celia Hollander pubblica per la losangelina Leaving Records, dopo il già sorprendente Recent Future dell’anno scorso, anzi è il terzo, contando anche DRAFT, originariamente autopubblicato nel 2014 in solo formato digitale sotto il moniker $3.33 e ripubblicato da Leaving Records su cassetta tre anni dopo. In realtà il curriculum di Hollander è be più ricco e corposo, con una mezza dozzina di titoli autoprodotti, la cassetta Just Dip, No Why pubblicata da Dzang Recs e DRILL, cassetta uscita per Noumenal Loom. A questo sono da aggiungere una lista di colonne sonore, sonorizzazioni per balletti e performances, installazioni e collaborazioni varie che testimoniano l’estremo eclettismo e la professionalità di un’artista vera e propria.
Con una laurea in architettura e un MFA in Music Composition & Experimental Sound Practice, Celia Hollander ha tutti gli strumenti che servono per unire la spazialità dell’architettura con la temporalità della musica, la formalità estetica con la precisione matematica. È un approccio che, per esempio, ha in comune con Gretchen Korsmo, anche lei architetto di formazione, e anche lei sound-designer per vocazione. Celia Hollander parte però da una concezione precisa della musica, vista non come una forma di arte, ma come arte a tutto tondo e autosufficiente, capace quindi di dare forma a qualunque esperienza.
L’idea per questo delizioso Timekeeper è probabilmente germinata da un libro di cui Celia, quando ancora era $3.33, aveva parlato qualche anno fa in un’intervista su The Fader, cioè Music and Conscousness di David Clarke e Eric Clarke. Timekeeper cerca in questo modo di dare una forma quasi spaziale e narrativa al tempo, per sua natura lineare e monotono, ritagliando dodici attimi nell’arco delle ventiquattro ore e cristllizzandoli ciascuno in un’unità percettiva precisa. In questo modo “3:34 Am” è una traccia scura, ipnotica, quasi cosmica, l’iniziale “6:33 Am” di contro ha dei contorni luminescenti e dolci, la multiforme “5:59 PM” sembra dialogare col jazz contemporaneo di Sam Gendel, così come l’elettronica da club di “12:55 PM” dialoga con gli esperimenti di Beatrice Dillon sui bpm (Celia Hollander ha organizzato la sua libreria di iTunes per BPM, tra l’altro), mentre “4:36 Pm” richiama certe decostruzioni liquide di Autechre.
Per Celia Hollander la musica deve essere “una sorta di tecnologia da usare per scolpire, manipolare o dare forma al tempo come mezzo” e fornire “una più vasta comprensione di come esperiamo il tempo.” Il tempo non è solo una sequenza di numeri, ma una successione di una serie di stati di coscienza che portano a percepire il mondo in modalità diverse. Un concetto difficile da spiegare, a meno che non lo si faccia in musica e non lo faccia Celia Hollander. Allora diventa tutto facile. E molto bello.