Taranoya è il progetto della musicista iraniana di base a Portland Taraneh Schmidt, fresca esordiente per sound as language con Becoming. L’album continua e espande le prime imbastiture tessute sui primi due singoli autoprodotti, “I’m Still Here” e “Long Lost,” cioè di creare musica ambient eterea e minimale, inzuppata di synth soffici e abbaglianti per raccontare da una parte il senso di smarrimento inevitabile per chi deve adattare la propria cultura di origine a una cultura di adozione, e dall’altro la faticosa conquista di un’identità.

Entrambi temi molto diffusi nella cultura occidentale, e nella cultura statunitense in particolare, e non solo nella musica: basti pensare a tutti i romanzi che raccontano l’integrazione culturale recentemente scritti da americani di origine ispanica, filippina, russa, asiatica, africana (per fare dei nomi Junot Diaz, Charles Yu, Chimamanda Adichie, Imbolo Mbue, Gary Shteynghart, Alex Gilvarry, Fatima Mirza). In musica è una tendenza relativamente nuova ma già significativa, e basti pensare alla Colombia ridescritta da Lido Pimienta. In materia di elettronica, soundscape e affini, questo ha portato a riscoprire il lato mediorientale di ambient e new age, quella filigrana prepotentemente presente in capolavori come Silence is the Answer di Georg Deuter, ora riesumata in album come il recente persianeggiante Under the Lilac Sky di Arushi Jain.

La bellezza di Becoming credo sia soprattutto nel modo in cui Taranoya riesce a incastonare elementi iraniani all’interno di strutture prettamente occidentali, lo fa per esempio su “Thinking Abou You,” dove sotto la cascata di synth e droni si riesce a percepire un tocco di medioriente. Ma Becoming racconta soprattutto una crescita personale e la conquista di un’identità, Taranoya intende descrivere la sensazione di “trovare se stessi in mezzo a una nebbia che ti avvolge,” e così tutte le parti vocali sono sepolte sotto un pesante strato di echi e riverberi, “Accidents” nasconde le parole dietro una tenda di organi, “You’re Only Breaking Down” le avvolge con le atmosfere sature e accoglienti di Juliana Barwick, “Let the Air” le sfuma dietro armonie celestiali che un po’ ricordano i tardi Cocteau Twins, con contrappunti di note basse che sfilacciano la cappa di droni.

In questo modo Becoming si inserisce appieno in quel blocco di dischi di musica elettronica che tentano di rappresentare la ricerca di identità, sia essa un’identità da costruire all’interno di incertezze di genere (Fragments di Body/Negative o anche Because of a Flower di Ana Roxanne) o un’identità intesa come maturazione (Il recente pur splendido In the Tender Dream di Sally Decker). Taronya riesce a costruire una narrazione ben definita che dai momenti iniziali fumosi, nebbiosi, incerti, raggiugne una concretezza nelle tracce finali, più limpide e regolari: “Do I Return” accenna pochi eleganti rintocchi di field-recordings.”Wake Me Up, Rush Me Up” le protegge con strutture sonore dinamiche e multiformi. In ogni caso si tratta sempre di cercare di capire quelle parole, di riscoprirne il significato, senza disperderlo in rumore o in interpretazioni esterne. “Someday” è forse la perfetta conclusione minimale, la fine di un percorso, i droni si fanno in disparte, la voce più intellegibile. L’identità è raggiunta, e il suo suono è bellissimo.