Fino a un paio di mesi fa non sapevo chi fossero i Barlow, e non ricordo nemmeno come ho fatto a inciampare su di loro—saltellando tra i tag di Bandcamp forse, o in qualche blog personale o tweet di qualcuno immerso nella musica indipendente, ma non importa, sono comunque contento che sia successo perché raramente capita di trovare musica rock fatta con questo grado di sincerità e autenticità.

Probabilmente il nome Barlow non è un tributo a Lou Barlow, ma se fosse la cosa avrebbe perfettamente senso: qui c’è il grunge prima che diventasse grunge, il rock indipendente ancora fieramente a bassa fedeltà e fai-da-te, ancora fatto più di schitarrate leziose fitte di riverberi e lontane dai riff affilati che si faranno strada post-1991. Siamo nei territori grunge già preconizzati dai Sebadoh e Folk Implosion, se non già dal Daniel Johnston di “Funeral Home” (la versione su Continued Story), o dai Beat Happening.

E i Barlow hanno mantenuto l’ethos underground: il disco esce il 17 settembre 2021, esattamente dieci anni dopo il primo concerto dei Barlow il 17 settembre del 2011. Da allora hanno fatto tante cose, e tutte da soli. Una manciata di album, tutti autoprodotti, tutti realizzati rigorosamente solo su cassetta. In perfetto stile indipendente, molti di quegli album sono raccolte di demo, pezzi abbozzati che poi verranno rielaborati successivamente e pezzi vecchi rifatti. Non fa eccezione Walls Of Future, che raccogli gli ultimi singoli, “Arm of Gold,” “Sucko,” “Makes My Life,” e ospita nuove versioni di pezzi già realizzati per demo tape precedenti, come la conclusiva “Sodom Star.”

Prima di arrivare a quella conclusione però si deve passare per tutta una selva di chitarre che ora sono sferraglianti (“Object Of…”), ora creano una perfetta pioggia di riverberi e echi (“Icon,” “Tell Me What You Want Me to Do”), ora diventano selvagge e schizofreniche (“Ankh”), ora si piegano al servizio di melodie gentili appena sussurrate (“Makes My Life”), ora contrappuntano la voce insieme a un basso saldo e educatamente in disparte che sembra sempre provenire da lontano lontano (“in Line” e “Red Car”). Insomma qua c’è tutto quello che si può chiedere a un disco di onesto rock indipendente, e tutto fatto nel migliore dei modi. Qui c’è il sapore deciso e autentico della cucina casalinga e del vino nuovo.