Sta succedendo qualcosa di bello e di strano tra il midwest e la California: negli ultimi due o tre anni ci sono sempre più casi in cui capita di risentire le sonorità proprie della prima ondata di post-rock, quella che grosso modo va da Spiderland a TNT. Gli Sprain hanno ripreso e omaggiato gli Slint (a partire dal titolo del pezzo di apertura di As Lost Through Collision, opportunamente chiamato “Slant”), i Credentials sbandierano il loro amore per il post-rock anni ’90 fino a dichiarare una “venerazione per le band di Louisville e Chicago,” i Dead Bandit hanno contaminato le sonorità dei Tortoise più maturi con echi di Ennio Morricone e Tom Waits, i Poorly Drawn House citano e proseguono la lezione di June of ’44, For Carnation e Karate, e ora Print Selection, primo album dei losangelini Bondo, pubblicati dalla fiorentina Quindi Records. Qui già gli accordi iniziali di “Container,” lenti e leziosi in perfetto stile slo-core nineties ci introducono a una mezz’ora scarsa di rielaborazioni e rivisitazioni di quei suoni. Ma niente di nostalgico, e tanto meno niente di derivativo o démodé: quello dei Bondo è sì post-rock, ma è post-rock come può essere pensato e suonato ora, ai primi vagiti degli anni ’20. Come per i Dead Bandit non si tratta di rivivere il passato, ma di riscriverlo, e anche per i Bondo, come per le altre band neo-post-rock che ho citato sopra, si ha la sensazione che lo scopo sia quello di continuare quanto fatto dalle band storiche prima che il post-rock si perdesse negli eccessi di languore e sonnecchiamenti che lo hanno caratterizzato negli aughties. Si tratta di tornare indietro per andare avanti da lì e riprendere le fila di un discorso lasciato cadere forse fin troppo presto. E così “Egoizing” parte da un arpeggio di chitarra pulita sorretto da una batteria vagamente dub per aprirsi a incastri melodici ariosi e inattesi per i territori post-rock, con un testo scarno quasi declamato con voce soffiata e ovattata che ricorda i God Machine di “Ego.” La precisa cavalcata matematica “Instrument” è il giusto preludio ai loop acustici di “Lo Tek” e di “Zion Gate,” pezzo che con quella batteria in primo piano e misurate sbavature elettroniche sullo sfondo potrebbe stare sul primo disco dei Tortoise. In altre tracce i Bondo diventano più geometrici e sfruttano i dinamismi forte/piano, marchio di fabbrica di tanta musica anni ’90 (“Mind Room,” “New Brain”), e nell’avvolgente closing-track “Pipecleaner” abbracciano appieno quelle derive dub che impreziosiscono e contaminano il genere fino a trasformarlo in pura dilatazione sonora.