
Anticipato da due singoli con tanto di video deliziosi (“Temper the Wound” e “Mirrored Solitude”) e preceduto da un disco in cui Kalia Vandever ha dimostrato la sua abilità di bandleader (Regrowth), We Fell In Turn è il disco in cui la giovane trombonista affronta se stessa, il suo passato, le sue origini e trova identità e personalità. Le dieci tracce, tutte registrate nell’arco di tre giorni e tutte nate da improvvisazioni attorno a un tema fornitole dal produttore Lee Meadvin, hanno una qualità consolatoria, quasi materna, che poi è quella consolazione che serve quando ci si sveglia dopo un brutto sogno. Il titolo dell’album, We Fell in Turn, dialoga direttamente con una delle tracce del disco, “We Wept in Turn,” e, dice Kalia Vandever, “entrambi i titoli rimandano all’intangibile del risveglio dopo un sogno vivido, in particolare quando ti svegli mentre sogni di cadere, o quando ti svegli in lacrime.” Affrontare la realtà spesso assume le stesse caratteristiche di risvegliarsi da un sogno, e scoprire che la vita è molto più prosaica e dura di un bel sogno, o peggio, che quello che ti sembrava un brutto sogno è invece la realtà che devi vivere da sveglio. Kalia Vandever ha trovato nella sue radici hawaiane la forza della consolazione: nella mitologia hawaiana gli ‘aumākua sono guide spirituali ancestrali che assumono diverse forme. Per Kalia hanno la forma di un abbraccio durante i sogni. We Fell in Turn raccoglie dieci di quegli abbracci, tutti fatti di suoni eterei, luminosi e circolari, dove il jazz più classico assume quasi le forme dell’ambient. Alle nevrosi che affiorano su “Teased Traces,” dove il trombone cerca di trovare una strada in una selva di echi e rumori, e la malinconica “Mirrored Solitude,” dove un coro di sirene ammalianti stempera un trombone languido, fanno da contrappeso pezzi decisamente più solari e accoglienti, come “Stillness in Hand,” che a tratti ricorda il Miles Davis di Kind of Blues, o l’adagio di “Held In” o la poetica e delicata “We Wept in Turn.” We Fell in Turn è un disco che mostra le enormi potenzialità delle semplici melodie, quasi prive di accompagnamento, se non pochi effetti e la voce, appena pronunciata, appena sussurrata, da angelo che ti bacia le orecchie di Kalia Vandever. Soprattutto è un disco che sta benissimo in compagnia di recenti lavori che hanno messo al centro uno strumento solo, come l’arpa di Mary Lattimore su Silver Ladders, il sax di Patrick Shiroishi su Hidemi, la chitarra di Bill Orcutt su Music for Four Guitars o di Jeff Parker su Forofolk, ma nessuno è mai riuscito a rendere così ricco e espressivo uno strumento spesso sottovalutato come il trombone.