
Nailah Hunter è una delle più belle e ambiziose promesse sin dall’EP di esordio per Leaving Records, Spell. Ha saputo mostrare il suo eclettismo e la sua grazia nel comporre musica da sola, in coppia con Samira Winter e nel progetto Galdre Vision, condiviso con Diva Dompé, Olive Ardizoni (aka Green-House) e Amy Dang. Tutte cose che si sono tradotte in grandi aspettative per il primo album vero e proprio di Nailah Hunter. Lovegaze, appena uscito per Fat Possum, però mantiene quelle promesse solo in parte. Se è vero che l’arpa come strumento musicale in ambiente popolare ha iniziato solo in tempi relativamente recenti a guadagnarsi i suoi spazi, gli esempi di Naila Sinephro, Mary Lattimore e soprattutto Joanna Newsom hanno già segnato un territorio difficile da percorrere, ciascuna contribuendo con un approccio distintivo, e ridefinendo uso e ruolo dell’arpa nel jazz, ambient e pop. Lovegaze è un disco di canzoni, molto contemporaneo, poco contaminato. L’arpa si defila spesso in secondo piano e spesso si ha la sensazione che Hunter abbia cercato una strada lastricata di compromessi. Le tessiture ambient di Spell si sono quasi ristrette sullo sfondo, dando al più una tenue sfumatura atmosferica, le contaminazioni dei quattro brani dell’EP di Galdre Vision un lontano ricordo e le tinture bossanoviste e folk del suo featuring con Samira Winter sparite nel nulla. A tutto questo Lovegaze sostituisce un elegante e raffinato arabesco di alt pop che spesso dà l’impressione di volersi malleare a misura di algoritmo. Tracce come “Finding MIrrors,” “Bleed” e “000” suonano come ballate in tonalità minore à la FKA twigs (e i riferimenti a Maria Magdalena su “000” non aiutano a sfuggire un confronto che si può solo perdere). Tutto molto bello, apprezzabile, curato ma anche freddino e scolastico.
Dove Nailah Hunter vince, e vince senza fare prigionieri, è laddove lascia libero spazio di tessere armonie alla sua arpa e dove usa la voce come sa fare, senza involontariamente dare l’impressione di inseguire modelli altri. Da “Adorned” in poi il disco sembra prendere il volo, le trame ambience di Spell tornano a galla, la musica si fa più personale e autentica, come più personale è quanto viene raccontato: “Adorned” racconta la malinconia delle rovine viste come resti di cose una volta amate lasciate marcire sotto l’indifferenza del tempo. Un testo spezzacruore e spargilacrime, tanto che Nailah confessa di aver pianto mentre registrava la traccia vocale. “Cloudbreath” è un piccolo gioiello, uno dei picchi dell’intero disco: una linea di synth angelica e eterea che fa da tappeto per una dolce doccia di note d’arpa, tutto è leggero, fatato, ipnotico. Oltremondano. “Garden” è un esempio di come new age e ambient possano trasfigurare lo slo-core in un raga celestiale, e davvero non sai se stai cadendo o fluttuando mentre Hunter canta “Come and meet me here/Fall/Flow.” “Into The Sun” chiude il cerchio (o semicerchio, per quanto mi riguarda) con una delle prove vocali più intense del disco, dove Nailah Hunter tocca registri di contralto che si sposano perfettamente con le note angeliche della sua arpa.