Tre anni fa si era formato un piccolo embrione di gruppi che stavano timidamente riesplorando e ridisegnando i contorni del post-rock, forse l’ultima esperienza di genuina rottura con i paradigmi asfittici del rock classico e tradizionale. In superficie, i Black Country, New Road si auto-proclamavano con un velo di ironia “the World’s [first] best Slint Tribute Act,” anche se forse il primato doveva andare agli Sprain di As Lost Through Collision, a Milwaukee i Credentials pubblicavano un disco nato da una dichiarata venerazione per le band del post-rock di Louisville, il primo ep dei Poorly Drawn House ha un debito tanto con i God Machine quanto con For Carnation e June of ’44. Tutti cercavano di riallacciarsi alla prima ondata di post-rock, quella grossolanamente racchiusa tra Spiderland e TNT, ma i Dead Bandit sono stati gli unici a farlo senza cercare oziosi revivalismi: From the Basement tornava sì alle sonorità dei primi Tortoise, ma il movente sembrava essere quello di ripartire da lì per prendere una strada alternativa alle dilatazioni sempre più fredde e sempre più autoindulgenti che il genere aveva assunto negli aughties. Lì quella strada portava a mescolare le venature di americana alternativa dei Tortoise (quelle del primo disco e dei primi due singoli Mosquito e Lonesome Sound) con suggestioni morriconiane, stemperare le dilatazioni con un tocco di sonorità desertiche e polverose, con i rumorismi del Tom Waits di Bone Machine e Real Gone, e col blues trasfigurato dei Morphine.
Memory Thirteen sembra confermare e arricchire questo percorso. Swan e Schimpl ripartono dall’impalcatura costruita sul disco d’esordio e continuano a aggiungere tasselli, ampliano la palette sonora, aggiungono particolari e merletti. La coppia d’apertura “Two Clocks” e “Memory Thirteen” sradica le melodie malinconiche e cinematiche degli XX dal loro contesto effimero e evanescente e le innesta in un soundscape post-ambient acustico, con un riff di basso corposo che ricorda quello di Alianna Kalaba dei FACS, “Blackbird” e “Quickscene” riprendono l’intimismo notturno e nebbioso dello splendido disco solista di Ellis Swan, 3 am, “Peel me an Orange” passa da un electro sheogaze darkeggiante a un impeto arioso in stile Explosions in the Sky, mentre “Somewhere to Wait” e “Staircase” riescono a sovrapporre evocazioni western su un tappeto dub. La parabola ascendente disegnata da From the Basement si chiude ad arco su Mermory Thirteen dove i bozzetti ambient sembrano voler dialogare con i ramage più recenti del catalogo Kranky, etichetta musicalmente molto vicina alle sonorità esplorate da Quindi Records: “Revelstoke,” “Perfume” e il basso pulsante di “Wabansia” sono risposte tanto all’ambient-folk meditativo di Grouper quanto al drone-gaze di MJ Guider, ultime eroine di casa Kranky. Memory Thirteen rinnova e rigenera il linguaggio del post-rock degli anni ’90, lo correda di nuove declinazioni, lo contamina con linguaggi limitrofi, lo usa per descrivere una realtà ormai tanto contaminata da diventare quasi aliena.