La prima volta che si sono incontrati nel 2009 al Decibel Festival di Seattle nel Rafael Irisarri e Thomas Meluch erano giovani promesse della musica che verrà, due visionari in anticipo sui tempi, Irisarri con le dilatazioni drone di Daydreaming e l’ambient-gaze liquido di quanto stava facendo sotto il moniker di The Sight Below, Meluch con la folktronica post-Grouper sotto il moniker Benoît Pioulard, e all’epoca aveva già all’attivo un trittico di album per kranky (Précis, Temper, Lasted, a cui in seguito si aggiungeranno Hymnal, Sonnet, e una manciata di altri dischi per Morr Music, fino allo stupedo Eidetic dell’anno scorso e l’incursione in territori ambient di Sunder usciti a inizio anno.
La proposta di collaborare fu di Irisarri, e a inizio del decennio scorso iniziarono a improvvisare su frammenti di chitarra, melodie vocali e materiale visivo. Da quelle prime esperienze nacque la cover di “Until Then” dei Broadcast, e da lì nacquero una manciata di canzoni che avrebbero dovuto formare un primo EP, poi diventato il loro primo intero omonimo album Orcas, uno dei dischi più belli del 2012 e degli ultimi vent’anni, un gioiello di ambient-pop onirico e dilatato che anticipava di qualche anno l’ondata di ambient di cui stiamo ancora vedendo gli strascichi. Sulla stessa linea il secondo altrettanto bello Yearling, che già si spostava su canzoni più strutturate, lontane dalle improvvisazioni estemporanee da cui era nato il disco d’esordio, e costituito per lo più di melodie di chitarre scritte da Pioulard successivamente rielaborate e rimaneggiate da Irisarri nel suo Black Knoll studio a Seattle. 
Dieci anni e due carriere (e due vite) dopo, gli Orcas tornano con un terzo album, How to Color a Thousands Mistakes, sempre per Morr Music, questa volta insieme a Simon Scott degli Slowdive alla batteria. Il disco  documenta, in un certo senso, i dieci anni di vita passati dei due musicisti, fortune, sfortune, dispetti della vita, momenti difficili e, per l’appunto, mille errori da portarsi dietro. È un disco molto più maturo dei due precedenti, che evita quelle anarchie sonore in virtù di canzoni dalla forma più classica, vicina all’art-rock che fu dei Talk Talk, e evita soprattutto gli intimismi accorati e suggestivi dei due dischi precedenti. I toni dominanti su How to Color a Thousand Mistakes sono toni pastello, chiari, tenui e rassicuranti. I testi raccontano dilemmi e sfortune, raccontano il bisogno di ritrovare un equilibrio, delle certezze cui aggrapparsi per ricostruirsi, e questo senso di concretezza è palpabile nelle tracce del disco. “Wrong Way to Fall” inizia con un’inflessione che può ricordare il David Sylvian più confessionale ma si trasforma subito in un pop limpido e arioso, allo stesso modo i droni introduttivi di  “Swells” vengono squarciati da una drum-machine che porta di nuovo a una canzone quasi sofisti-pop luminosa, rassicurante, quieta. Non mancano momenti più intimi, come l’ambient-pop in zona Tujiko Noriko di “Heaven’s Despite” o della conclusiva e avvolgente “Umbra.”
Inizialmente si fa fatica a riconoscerli, come puoi fare fatica a riconoscere un vecchio amico che non vedi da dieci anni. Lo vedi inevitabilmente cambiato, maturato, diverso, magari gli vedi addosso il bisogno di concretezza che gli ha fatto venire la vita suo malgrado, e gli vedi addosso una rinnovata e placida serenità. Lo stesso accade con How to Color a Thousand Mistakes: il disco di una coppia di musicisti che non vedevi insieme da dieci anni, e che dieci anni dopo hanno deciso che avevano bisogno di fare una manciata di canzoni concrete, confortanti e soprattutto bellissime.