
I Dummy continuano a essere una delle band più amate, chiacchierate, seguite e rispettate nel panorama indie-alternative americano, anche perché sono sempre stati molto attivi a promuovere scene indipendenti e underground, per etica personale e negli ultimi anni anche per professione (Joe Trainor è promoter di diverse realtà di rock alternativo). Hanno iniziato in sordina in piena pandemia con due ep, il primo Ep1 uscito per Pop Wig Records a maggio del 2020, quasi programmatico, un indice delle fonti di ispirazioni, tra folk Broadcastiano, inserti kraut e sussulti stereolabiani, il secondo, Ep2 uscito per la defunta ma indimenticabile Born Yesterday Records sei mesi dopo, più estemporaneo, sperimentale, folle. Il primo ep rappresentava la strada maestra che i Dummy volevano prendere, il secondo le deviazioni che si sarebbero concessi. Tutto confermato su Mandatory Enjoyment, disco d’esordio per Trouble in Mind che ha inserito ufficialmente i Dummy tra le band di “pop” obliquo più interessanti degli ultimi anni, accanto a Empath, Water from your Eyes, HTRK o anche i capostipiti e alfieri del jangle del nuovo millennio Ovlov.
Free Energy, il loro secondo disco in uscita sempre per Trouble in Mind, segna un’ulteriore evoluzione stilistica e creativa, riprendendo per certi versi la progettualità del primo vero e proprio embrione dei Dummy: quando metà del gruppo era ancora a Baltimora nei Wildhoney, Trainor conobbe Emma Maatman, all’epoca studentessa proprio a Baltimora, e iniziarono a provare a suonare insieme come progetto personale e laterale ai Wildhoney. Ne uscì qualcosa di molto diverso dall’indie-rock chitarristico dei WIldhoney e vicino a una versione più grezza dei Portishead. Quando poi Maatman e Trainor si sono ritrovati dall’altra parte degli Stati Uniti, a Los Angeles, e hanno formato una nuova band, fu abbastanza automatico chiamarla Dummy in onore di quella prima esperienza seminale.
Né nei due ep, né su Mandatory Enjoyment ci sono tracce evidenti di Portishead, ma Free Energy aggiunge al cocktail quel tocco di elettronica calda e sporca, un po’ trip-hop con un po’ di dub e qualche drum-machine e il cerchio si richiude perfettamente. A ben vedere c’è una piccola nuova tendenza a incorporare elementi trip-hop nel pop indipendente di oggi. È la cosa che fanno i Daisies, o a.s.o., e in territori più smaliziati, Nia Archive, Erika de Casier e persino Nilüfer Yanya. A questo si aggiungano anche quelle band dell’ultima ondata di shoegaze che inseriscono elementi breakbeat e elementi elettronici nel loro sound, su tutti Full Body 2 e forever ☆. Il quadro è completo: i Dummy sono partiti da un sound multiforme e cangiante ma già legato ai primi Stereolab, e sono evoluti in un post-shoegaze danzereccio che non ha niente a che fare con il nu-gaze sterilizzato dello sciame di gazers di Tik Tok. La Paisley Underground-iana “Minus World” e “Soonish” sono forse i pezzi che si legano maggiormente al primo album, chitarre sature, melodie cristalline, la voce di Emma Maatman più eterea che mai, ma già fanno capolino drum-machine e inserti elettronici, un contagio benevolo che forse arriva dagli amici e colleghi di etichetta Smoke Bellow, ma già “Blue Dada,” ultimo singolo estratto dal disco, introdotta da “Opaline Bubbletear” (con il sax stratosferico di Cole Pulice) segna un’evoluzione in direzione di quanto fatto da etichette come kranky e Too Pure. È sempre una canzone pop, con una melodia in perfetto stile Dummy, ma con inserti noise-gaze, echi, riverberi, elementi quasi new-age sullo sfondo. Ancor di più “Dip in the Lake,” costruita su giochi di contrasti tra quiete e rumori improvvisi, con il corollario “Sudden Flutes,” originariamente parte integrante di “Dip in the Lake,” a fare da contocanto e porta di uscita (con ancora un Cole Pulice elegante e raffinato). “Psychic Battery” è psichedelia gentile, una carezza di nebbie sonore, una simulazione dub techno che si trasforma in una ballata in stile Broadcast o Hydroplane. Prima della fine del disco “Nine Clean Nails” (gioco di parole che rimanda a Nine Inch Nails?) ha un attacco che ricorda i Blur più rock e un basso che ricorda gli Stranglers e la new wave primi anni ’80, ma man mano che procede si apre a ventaglio su elementi motorik e psichedelica anni ’60. Mi piace che un pezzo del genere sia messo in mezzo a due brani più ipnotici e meno “pop,” la succitata “Sudden Flutes” e la conclusiva, bellissima “Godspin,” che come “Atonal Poem” su Mandatory Enjoyment è il contributo più ambient e astratta, qui tutto impreziosito da un uso intelligente di field-recordings.
Se Mandatory Enjoyment era un ossimoro che sottolineava l’esigenza di avere una qualche forma di divertimento, Free Energy è un altro ossimoro che sottolinea l’idea utopica di un’energia creativa senza limiti né vincoli, libera di fluire e trasformarsi. I Dummy, con questo nuovo disco, hanno mantenuto l’approccio gioviale e privo di compromessi dell’esordio, ma si sono evoluti senza perdere un briciolo di identità, esplorando territori sonori nuovi ma sempre in linea con la loro visione audace, libera e energetica.