Ci sono etichette discografiche che hanno letteralmente creato generi musicali, o per lo meno contribuito non poco alla loro diffusione e sedimentazione. La Sire per la new wave a fine anni ’70, per esempio, o ancora 4AD e Project per quello che la new wave doveva diventare negli anni ’80, tra dark, art-pop e shoegaze, e la Thrill Jockey per il post-rock dagli Slint ai Tortoise e oltre. Poi ci sono etichette che si fossilizzano su un genere e con quello invecchiano, e altre che i generi li lasciano crescere, evolvere e trasfigurare. L’etichetta indipendente di Chicago kranky ha ripreso la strada della concittadina Thrill Jockey, aggiornando quel post-rock con le logiche ambient e con l’aura più dark del catalogo 4AD e soprattutto del catalogo Project. In casa kranky, in un certo senso i Low erano una continuazione in chiave dilatata del post-rock Thrill Jockey, come Labradford, Bowery Electric, Jessica Bailiff e Belong hanno poi rappresentato un’evoluzione di quel percorso in chiave dark e ambient, e ora MJ Guider è forse la più naturale evoluzione di quell’approccio al songwriting.

Per come la vedo io, le caratteristiche per un grande disco sono due: la prima è MAI, assolutamente MAI cercare di compiacere un pubblico vasto, e nemmeno un pubblico piccolo in realtà.  Farlo è l’equivalente delle televendite. La seconda è: confondi le idee, mescola più generi che puoi e violentane le regole, rendili irriconoscibili. È quello che fa Mj Guider, ossia Melissa Guion, giovane musicista elettronica di base a  New Orleans, Louisiana, terra del blues più torbido e mistico. Mj Guider fa entrambe le cose che si devono fare per avere un gran disco e le fa benissimo: non cerca consensi facili e mescola generi fino a confondere le idee.

Sour Cherry Bell è un disco oscuro, ritroso, torbido, quasi impenetrabile per quanto è denso e limaccioso, eppure ti avvolge e ti travolge, fino quasi a ammutolirti e estasiarti. È come se entrassi in una stanza con pareti, soffitto e pavimento dipinti di nero, con un’unica finestra da cui filtra un po’ di luce ma smorzata da spesse tende, anch’esse nere. All’inizio ti manca il fiato, hai un attacco di claustrofobia anche se non ne hai mai sofferto. Poi lentamente i tuoi occhi iniziano a abituarsi all’oscurità, e vedi che quel posto è stranamente accogliente. A ben vedere è quello che accade ogni volta che si è davanti a qualcosa di inaspettato e diverso: prima hai paura dell’inaudito, poi vedi che quel cambiamento è un progresso. Il primo pezzo, non a caso intitolato “Lowlight” ha ancora qualche sprazzo di luce da offrire, è un pezzo atmosferico che potrebbe essere uscito da uno dei primi dischi dei Cocteau Twins, ma poco meno di tre minuti e già “The Steelyard” ti aggredisce con clangori industrial su un tappeto dark degno dei Lycia o Black Tape for a Blue Girl.  Inizia un muro di suono, sospeso tra shoegaze, drone, dream-dark (cioè dreampop fatto col dark) e noise-goth (noise col goth al posto del rock) che allo stesso tempo ti confonde e cattura la tua attenzione, ti respinge ma ti fa venire voglia di restare a sentire cosa accadrà. In poche parole: ti attira respingendoti, come delle perverse sirene gotiche.

Come detto, torna in mente un po’ tutto il catalogo 4AD degli anni ’80, ma filtrato con l’elettronica di ultima generazione. “Body Optics,” la traccia più lunga del disco, è costruita su  scarne note di synth che fanno su e giù su una linea di basso ossessiva avvolta in una fitta coltre di droni, con quella voce che salmodia stanca e sembra provenire da un chissà dove lontano lontano. ‘Quiet Time’ inizia con un organo da colonna sonora di film horror, potrebbe ricordare l’intro di “Beat It” di Michael Jackson se fossimo in un altro mondo, e quel secondo di silenzio (00:17) dove tutto sembra morire per poi resuscitare subito dopo, ti spaventa e ti rassicura allo stesso tempo, prima di catapultarti in  una versione più gotica e rumorosa di Pornography dei Cure. Pochi minuti di sollievo, con l’accoppiata “Perfect Interference” e “Sourbell” che si librano in un crooning in zona Bat for Lashes, sono solo il preludio per lo splendido finale di “Petrechoria,” una closing-track perfetta per un disco del genere, un pezzo ambient dai toni decisamente dark che lentamente si schiariscono, fino a lasciar spazio a una voce che per certi versi riassume tutti gli umori e i suoni che ti hanno portato fin lì. Lì dove hai voglia di rifare il viaggio daccapo.