Palesemente un capolavoro. E dire che era difficile mantenere il livello di un disco pressoché perfetto come il precedente Double Negative, e forse era ancora più difficile farlo senza ripetersi. I Low ci sono riusciti appieno, e ci sono riusciti con un disco che a primo impatto può sembrare molto simile al suo predecessore, ma che in realtà ne è l’antitesi quasi totale. E anzi, è quasi la definitiva mutazione genetica dei Low, che dallo slo-core essenziale, mormorato, sono passati a un nuovo genere che dell’originale mantiene la lentezza ma la arricchisce di rumori, glitch e saturazioni.

Double Negative era un disco post-apocalittico, cupo, esistenziale, dimesso, perfetta colonna sonora per i mala tempora dell’amministrazione Trump. Lì elettronica e glitch erano calibrati e controllati, seppur pensati per fratturare il flusso di un disco che raccontava la rassegnazione del caos. HEY WHAT è il disco della ricostruzione, intenso, a suo modo impetuoso e solare. Se Double Negative suonava come la colonna sonora di un libro di DeLillo, etereo, un’elegia della dissoluzione, HEY WHAT suona come un libro di McCarthy o di Marilynn Robinson, intenso e sofferto, ma bordato di luce e speranza, una pastorale della rinascita.

Al posto dei ritmi ossessivi di tracce come “Dancing and Blood” e di ballate intime come “Fly” e lamenti come “Always Up” ci sono fanfare come l’opening-track “White Horses,” marce solenni come “All Night” e “Hey,” gospel ariosi cantati a pieni polmoni come “Days Like This,” ballate malinconiche ma confortanti come “Dont’ Walk Away” e “I Can Wait” e fanfare incendiarie come “More.” Ancora, se Double Negative poteva permettersi il lusso dell’essenzialità e del labor limae, HEY WHAT si fa carica della ricostruzione, e quando ricostruisci più che precisione ti interessano stabilità e solidità: qui ogni traccia ha delle sbavature, delle imperfezioni, dei contorni più ruvidi, ma è anche più salda e robusta. È il “freddo conforto” di cui Alan Sparhawk canta su “Disappearing” e che forse ha imparato dalla sua recente passione per l’orticoltura. Come ha detto in un’intervista, coltivare un orto ti fa capire che “you’re at the mercy of chaos and in the unique position of being able to steer it and influence it”: e questa contraddizione squisitamente umana tra controllo e imprevedibilità è esattamente quello che sembra raccontare questo disco.

Sopratutto c’è un suono paradossalmente più pieno e rotondo. Nonostante i Low orami siano ridotti all’essenziale—la coppia Mimi Parker e Alan Sparhawk—HEY WHAT sembra quasi il disco di un’orchestra tanto i suoni sono saturi e occasionalmente straripanti. Il produttore BJ Burton, al suo terzo disco con i Low, aveva detto che questo disco darà la sensazione di sentire le chitarre per la prima volta. Niente di più vero: anche se può non sembrare, HEY WHAT è un disco eminentemente chitarristico, fatto di accordi ora iper-distorti e tracimanti, ora effettati e filtrati fino a renderli quasi irreali, nuovi, insomma, BJ Burton e i Low hanno reinventato la chitarra per il nuovo millennio, e anche questo è un elemento di ricostruzione, di lento progresso verso una nuova e più consapevole umanità.