Il diciannovesimo album dei The Necks arriva dopo quarant’anni e spiccioli di onorata attività psichedelica. Soprattutto, il nuovo album Travel, come del resto il suo predecessore Unfold pubblicato da Ideologic Organ nel 2017, è il risultato di quei quarant’anni passati a suonare e improvvisare insieme e entrambi potevano prendere la forma che hanno solo ora e proprio in virtù del vissuto comune del trio australiano. Chris Abrahams, Lloyd Swanton e Tony Buck sono diventati un orologio perfetto in cui ogni minimo meccanismo e ogni singolo ingranaggio trovano spontaneamente l’incastro giusto, anche quando decidono di autoimporsi una ferrea dieta di improvvisazione: le quattro lunghe composizioni di Travel nascono da sessioni registrate dal vivo in studio, con piccoli e quasi impercettibili ritocchi in post-produzione, eppure nessuna di quelle tracce ha le sembianze di un’improvvisazione in presa diretta. In Travel succede esattamente l’opposto di quanto succede in alcuni dischi recenti figli dei lockdown e registrati e realizzati in regime di smart-working, come ad esempio No Island dei Winged Wheel o Vines delle Damiana, in cui ciascuno musicista coinvolto suonava  la sua parte da casa senza interagire fisicamente con gli altri, dando però vita a pezzi che sembravano fisicamente improvvisati in studio, in presenza e con una interazione reale tra i musicisti. La bellezza e la straordinarietà di No Island e di Vines era proprio in come riuscissero a sembrare musica registrata in studio da musicisti che improvvisavano insieme quando in realtà erano frutto di sessioni distanziate nello spazio e nel tempo. Travel invece per quanto sia improvvisato dà quasi la sensazione di essere l’esecuzione di musica pensata, ragionata, scritta e eseguita alla perfezione, e questa magia avviene solo quando a metterla in atto sono musicisti con un’invidiabile e collaudata affinità. “Signal,” “Forming,” Imprinting,” “Bloodstream” si susseguono come a voler formare un messaggio ben preciso, o l’itinerario di un viaggio, sono un territorio che puoi mappare come vuoi, esattamente come accadeva per le quattro tracce di Unfold che era cura dell’ascoltatore dischiudere a suo piacimento: quindi puoi iniziare dall’inizio, dal segnale, dalle prime note di contrabbasso e pianoforte che si trasformano in un vortice sempre più veloce e profondo, oppure puoi seguire le carezze del pianoforte di Chris Abrahams, note che sembrano voler restare sempre un’introduzione a qualcosa di indicibile finché quell’indicibile arriva e cresce fino a sommergerti, o puoi partire dal fondo, da quel fiume in piena che è “Bloodstream,” psichedelico, conturbante, fragoroso. Qualunque viaggio tu voglia fare, la destinazione è sempre lo stesso stato di estasi che solo una musica così complessa eppur così semplice può dare.