
Una volta le case avevano mura spesse e vetri sottili che lasciavano trapelare quasi ogni rumore dall’esterno. Oggi la situazione si è ribaltata: mura esili, magari con una controparete in cartongesso per l’isolamento acustico e finestre spesse che bloccano rumori esterni, e se non ti basta hai a disposizione una vasta gamma di cuffie con tecnologia Noise Canceling per escludere quasi tutto ciò che percepisci come disturbo. Già per Schopenhauer la sensibilità dell’uomo per la musica sarebbe inversamente proporzionale alla quantità di rumore che è capace di tollerare. Per un orecchio educato, la minima interferenza può sembrare un’intromissione di caos in un’armonia prestabilita e costruita secondo logica e ragione. È attorno a questa dicotomia tra musica e presunti rumori che il compositore canadese R. Murray Schafer costruisce il suo saggio del 1967 Ear Cleaning, dove scrive: “L’orecchio è sempre aperto […] la sua unica protezione è un elaborato sistema psicologico che filtra i suoni indesiderati in modo da concentrarci su ciò che è desiderabile.” Quindici anni dopo queste stesse frasi finiranno nelle liner notes di Music for Nine Post Cards di Hiroshi Yoshimura, uno dei principali esponenti della kankyō ongaku, musica ambientale che trae ispirazioni tanto da Erik Satie quanto dalle composizioni ambient di Brian Eno. Inizialmente lo scopo di Yoshimura era quello di creare dei sound design, una “musica d’arredamento” che si sposasse appieno con l’armonia dell’architettura, le nove composizioni di Music for Nine Post Cards imitavano e riproducevano cose naturali, e di quelle cose naturali portavano i titoli (“Water Copy,” “Ice Copy,” “Clouds,” “Rain from my Window”). Nel successivo Green e forse ancor di più su Surround, lo scopo di Yoshimura era quello di riconciliare la nostra sensibilità con quella selva di suoni naturali che ci offre il mondo. Nei suoi taccuini si legge: “My music is not mine, but the sounds which are not mine are also my music,” frase che si può benissimo usare per descrivere la musica di Lia Kohl, soprattutto quella del suo precedente disco, The Ceiling Reposes e di questo suo terzo, Normal Sounds, in uscita per Moon Glyph. Quando è stato annunciato il disco, nella sua mailing list Lia Kohl lo ha definito “una lettera d’amore al mondo sonoro quotidiano, alla parte del mio cervello che non può smettere di ascoltare tutto, tutto il tempo.” Frase che riecheggia non solo quella di Yoshimura, ma più o meno quelle di qualunque musicista impegnato in pratiche come field-recordings.
Normal Sounds però non è un disco di field-recordings, seppur ne faccia in qualche modo uso, né è musica per ambienti, e non è architettura sonora per interni. Lia Kohl cerca di isolare suoni e rumori che già esistono nell’ambiente circostante, siano essi frequenze radio perse nell’entropia del tempo o semplici rumori di animali, piante o oggetti, e di estrapolarne e amplificarne il senso. Non è una variante di un’arte mimetica, non si tratta di usare strumenti musicali per ricalcare il suono della natura, come per esempio di recente ha fatto Matthew Sage su bellissimo Paradise Crick, disco pieno di suoni e rumori della natura ma tutti totalmente e rigorosamente ricreati tramite synth. Su Normal Sounds si tratta di incorporare i suoni naturali in un discorso più ampio, mostrarne trame, melodie e armonie innate, e in questo si avvicina a quanto ha fatto Emeka Ogboh su Behind the Yellow Haze con i suoni della vita frenetica di Lagos: frequenze radio, rumore del traffico, frammenti di conversazioni, colpi di clacson, annunci pubblici. Jez riley French ha definito l’arte del field-recording come “starsene seduti da qualche parte a guardare e ascoltare la vita,” e è proprio quello che ha fatto Lia Kohl su Normal Sounds: partire da alcuni suoni semplici, normali, e isolarne frammenti che sono in qualche portatori di significato, di una narrativa, una storia vera e propria. Sempre Jez riley French preferiva definire quei suoni “located sound,” suoni localizzati, presi dal quotidiano e usati come ponte tra arte e vita. Lia Kohl isola alcuni suoni come passi sulla neve, clacson, traffico, il ronzio di un lampione, il rumore bianco di un frigorifero, la musica di un camioncino dei gelati e li arricchisce con poche note di violoncello, synth e altri strumenti ma restando sempre fedele a ciò che ha trovato nel quotidiano.
La cosa più affascinante di Normal Sounds è che sono tutti pezzi che fanno un qualche uso di field-recordings ma tutti prevedono una qualche interazione umana, e proprio l’interazione umana è quello che dà una storia e una trama a ciascuno di quei sette pezzi, come se fossero racconti, o tracce audio di cortometraggi senza dialoghi, ma solo rumori di scena: i passi sulla neve, di “Tennis Court Light, Snow,” gli allarmi e il cicalino delle frecce delle automobili di “Car Alarm, Turn Signal,” il brusio umano di “Plane,” lo scalpiccio su “Ignition, Sneakers” indicano tutti una qualche azione umana che si fonde con i rumori bianchi, rosa e marroni pur presenti e contribuisce a creare un’azione. Se i sette brani di The Ceiling Reposes si fondevano l’un con l’altro fino a legarsi in una specie di macroracconto fatto di brandelli di voci captate alla radio, i sette pezzi di Normal Sounds sono invece sette piccoli racconti a se stanti, racconti di un quotidiano che a volte può nascondere tragedie scampate (“Ice Cream Truck, Tornado Siren”), momenti di noia rigenerante (“Plane”) o partite a tennis rimandate (“Tennis Court Light, Snow”). Abbiamo solo poche parole a fare da guida e pochi minuti di suoni, ma tutto ciò basta a creare sette piccole storie per suggestioni e impressioni. Lia Kohl ha un’altra volta dimostrato di avere una visione, un’estetica del suono e una filosofia della musica. La sua è un’arte programmatica in bilico tra musica classica, ambient, drone, jazz e strutture pop. Usa idee del passato, prima su tutte l’idea di John Cage che ogni cosa può essere materiale compositivo, e le arricchisce con la sua sensibilità fino a creare una rinnovata visione di ciò che può essere musica.